L’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato europei è una “notizia” che non si sa bene come affrontare. Il rallentamento economico e la recessione che si avvicina, a causa dell’esplosione dei costi energetici, in teoria dovrebbero far avvicinare l’avvio di politiche espansive oppure, sicuramente in Europa, far finire la stretta monetaria. In questo scenario ci si aspetterebbe l’effetto opposto, e cioè una riduzione dei rendimenti dei titoli di Stato, perché investitori e risparmiatori corrono a comprare investimenti sicuri. Anche i rendimenti dei titoli di Stato americani sono saliti, ma nessuno ne parla con gli stessi toni di cui si parla di quelli europei. L’inflazione americana è un’inflazione da domanda e l’economia si avvia verso un rallentamento inferiore e a quello europeo e posticipato.



Il movimento dei titoli di Stato europei, e in particolare di quelli italiani, invece è un segnale di stress finanziario, di sfiducia nei confronti della Banca centrale europea e, ancora più a fondo, del modello europeo in quanto tale. Alcune migliaia di miliardi di euro di Pil europeo rischiano di collassare per l’assenza di qualche decina di miliardi di euro di importazioni di gas. L’Europa subisce un’inflazione per cui non ha risposta e da ottobre non potrà impedire la fine di interi settori industriali, a meno di ipotizzare l’esplosione del debito pubblico. Sarebbe, forse, il minore dei mali, perché terrebbe in piedi un intero sistema industriale che chiude non per mancanza di idee o competitività, ma per costi energetici insostenibili.



Questa soluzione in Europa apre tensioni tra Paesi membri e comunque nel breve medio periodo peggiora l’inflazione. La deflazione salariale interna con cui l’Europa ha risolto i suoi problemi di competitività nel 2012 oggi non è più un’opzione, perché la crescita dei costi energetici è un multiplo di qualsiasi deflazione salariale che si potrà mai ottenere.

L’Europa, alla fine, potrebbe forse decidere che l’esplosione dei debiti pubblici è la soluzione più indolore, ma solo dopo infinite polemiche e ritardi che condannerebbero a morire anche chi si sarebbe potuto salvare. Le discussione di questi mesi sul “tetto al prezzo del gas” o su altre misure, a tempo scaduto, sono emblematiche. L’Europa è troppo frammentata e i Paesi membri hanno politiche e storie energetiche completamente diverse. C’è chi dipende dal gas e non dalla Russia, chi dipende dal nucleare, chi ha i rigassificatori e chi no e chi ha idrocarburi o meno. Anche i razionamenti, che potrebbero essere una soluzione, nei fatti si scontrano con le peculiarità dei Paesi membri.



I mercati e gli investitori guardano a tutto questo da un punto di osservazione esterno. Giudicano e valutano con distacco. L’industria europea non è competitiva e l’Europa non ha una risposta ai problemi che pone la “guerra” contro la Russia. L’Europa è ancora convinta di un ambientalismo che semplicemente non si può permettere, mentre persino il Giappone di Fukushima decide di riaprire le centrali nucleari. Ieri il Giappone ha firmato un contratto per forniture di gas liquefatto con l’operatore russo del progetto Sakhalin 2. Il Giappone con il suo debito colossale non riceve le stesse attenzioni di quelli europei. È coeso, non è alle prese con divisioni insanabili e ha una soluzione ai suoi problemi energetici.

L’Italia all’interno dell’Europa è il Paese più attaccabile per il suo debito liquido. La “novità” rispetto alla scorsa crisi dei debito sovrano è che questa volta non c’è una soluzione “facile” a portata di mano e difficilmente si potrà circoscrivere il problema a un Paese membro. La crisi finanziaria coinvolge, sicuramente con differenze, tutto il continente. Tendenzialmente, partendo da Germania e Italia, più si va a ovest più si migliora.

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