Che pasticcio quando gli obiettivi climatici si intrecciano con i diritti umani. Mentre Joe Biden si appresta a riconoscere il genocidio armeno per mano dell’impero ottomano nel 1915 (primo Presidente statunitense a farlo), accoglie il presidente cinese Xi Jinping al summit mondiale sul clima e riaccende il delicato dilemma in discussione al Congresso: se vietare l’importazione di pannelli solari dalla Cina per motivi umanitari. È molto stretto il sentiero che si snoda per l’Amministrazione Biden. Da un lato, è intenzionata a riprendere la leadership nella lotta globale contro il cambiamento climatico, dopo che Trump aveva staccato la spina, e dall’altro per rendere efficace questo comando è indispensabile stringere i legami con la Cina, il principale emettitore di gas serra al mondo.
La Repubblica Popolare Cinese rappresenta il 26%, mentre al trio Usa, Europa e Cina sono addebitabili circa il 50% della CO2 emessa al livello mondiale. Gli obiettivi sono audaci. Il presidente Usa intende presentare il nuovo obiettivo di taglio delle emissioni interne pari almeno al 50% entro il 2030 (appena sotto il target di taglio europeo del 55%). Mentre il piano quinquennale cinese presentato all’inizio di marzo riportava l’impegno del Governo di Pechino di toccare il picco delle emissioni entro il 2030, e si ipotizza che, proprio in occasione dei due giorni di summit, il presidente Xi Jinping potrebbe annunciare un anticipo rispetto alla data indicata. Senonché, se finalmente nel multilateralismo dei negoziati ambientali si respira finalmente una convergenza di intenti, plana invece un certo imbarazzo sulle implicazioni umanitarie di alcune scelte verdi.
Lo scorso gennaio il Dipartimento di Stato ha definito senza mezzi termini il trattamento riservato agli Uiguri un genocidio demografico e culturale. Secondo il rapporto statunitense, un milione di cittadini cinesi appartenenti alla minoranza islamica è sistematicamente oggetto di repressione violenta da parte delle autorità cinesi: sterilizzazione, campi di rieducazione e lavori forzati. Questi moderni schiavi rappresentano una conveniente forza lavoro per le industrie della regione, tra cui diversi fabbricanti di pannelli fotovoltaici destinati al mercato interno e all’export. Secondo quanto viene riportato dalla stampa statunitense, imprese come Shinta energy, East Hope Group e GCL Poly-Energy Holding, aderiscono ai programmi statali di reclutamento e impiego degli Uiguri.
Per anni, come acquirenti occidentali, ci siamo compiaciuti del declino del costo di pannelli solari cinesi, attribuendolo unicamente al miglioramento dell’efficienza di conversione dell’irraggiamento solare in elettricità. I pannelli solari, anche i modelli con le migliori performance, hanno registrato sì aumenti dell’efficienza, ma dell’ordine di 2-3 punti percentuali. Sorge quindi naturale interrogarsi se la competitività del solare cinese non beneficia anche del lavoro forzato della minoranza uigura, che va a cumularsi all’organizzazione produttiva svincolata dagli standard ambientali e di sicurezza stringenti quanto quelli occidentali.
Recentemente, per sfuggire a un possibile veto di esportazione dei propri pannelli negli Stati Uniti, 200 fabbriche hanno annunciato un loro impegno a delocalizzare dalla provincia dello Xianjiang la produzione di silicio policristallino utilizzato nei pannelli destinati al mercato statunitense. Ma un conto è promettere di modificare la catena dei rifornimenti, un altro è impegnarsi a bandire qualsiasi forma di lavoro forzato. Senza sostenibilità sociale, la transizione ecologica non fa bene neppure al pianeta.
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