Alfa Romeo non attraversa un periodo particolarmente felice: le vendite non stanno premiando lo storico marchio lombardo. Al di là delle cause specifiche, la situazione contingente può essere letta come una manifestazione di un fenomeno in atto da tempo, che porta alla frammentazione del tessuto economico del nostro Paese.
Il viandante che si trovasse a deambulare in zona Arese Nord, dalle parti di via Giuseppe Luraghi, potrebbe essere risucchiato in un gigantesco ingorgo di auto e mezzi commerciali. Che cos’è questo buco nero che attrae così tanti avventori? È il (relativamente nuovo) centro commerciale di Arese “Il Centro”. Inaugurato nel 2016, forte di oltre 200 negozi, il Centro è diventato rapidamente uno dei punti di riferimento per i praticanti lombardi della disciplina nota come “mall-hopping”, che consiste nel trascorrere il tempo libero vagando da un centro commerciale all’altro.
Grazie alle sue enormi dimensioni (pare che sia uno dei più grandi d’Italia), il Centro è in grado di soddisfare le esigenze dei consumatori più sofisticati, in ogni branca del consumismo: prodotti di elettronica, abbigliamento, gastronomia… Il colpo d’occhio che ricava il cliente del Centro rimanda a una florida classe media, intenta a immettere cash nel circuito economico: “i ristoranti sono pieni”, insomma. Nelle vicinanze aleggia però una presenza aliena, che rischia di turbare questo quadro idilliaco.
Uscendo dal Centro, guardando in alto a sinistra, si nota un grosso edificio simile a una pagoda o a una torre di controllo: è quello che rimane del più grande sito produttivo Alfa Romeo, attivo tra il 1963 e il 2005. La costruzione dello stabilimento fu decisa negli anni ’60 da Giuseppe Luraghi (quello della via!) per far fronte a una domanda che lo stabilimento Alfa Romeo del Portello (Milano) non riusciva più a soddisfare. Tempi d’oro destinati a non durare per sempre.
Dalla pagina di Wikipedia: “Con il declino della produzione automobilistica, già a partire dagli anni duemila una porzione delle aree ad uso industriale vennero rioccupate da nuove aziende, riassorbendo in parte alcuni dipendenti ex Alfa Romeo, in base a un piano protocollato tra la FIAT, la nuova proprietà, Regione Lombardia e i comuni interessati, denominato Alfa Business Park.”
“Dal 2013 è proseguito un progetto volto al recupero delle aree che un tempo ospitavano il corpo della grande fabbrica. Al posto dei capannoni dismessi è sorto il centro commerciale Il Centro (tra le strutture di vendita al dettaglio più grandi d’Europa) e un parcheggio da 10000 posti per i visitatori del vicino Expo 2015 (chiuso come da programmi alla data di conclusione dell’esposizione universale ma ancora attivo per i clienti del centro commerciale).”
Apprendiamo quindi che il Centro altro non è che la metamorfosi di una parte dello stabilimento Alfa Romeo. La parte restante della fabbrica è in stato di abbandono e potrebbe diventare il soggetto di una puntata del programma televisivo “La terra dopo l’uomo”. Non tutto però è perduto, infatti “una piccola parte dell’ex sito produttivo aresino ospita il Museo storico Alfa Romeo”.
Qual è la chiave di interpretazione della trasformazione subita dal complesso di via Luraghi? Si potrebbe essere tentati di leggere il fenomeno come un esempio di passaggio da un’attività di tipo manifatturiero a un’attività di tipo commerciale. Nella mia interpretazione, si tratta invece di un esempio di crisi della grande impresa italiana, costretta a cedere quote di mercato a competitor stranieri. Il buco lasciato dalla contrazione della grande impresa viene poi riempito da tante piccole aziende (i negozi del Centro).
La spina dorsale dell’economia è composta da piccole imprese. Questa affermazione è vera per la maggior parte delle economie avanzate, ma la quota di piccole imprese è più elevata in Italia che in altri Paesi. Le PMI (Piccole Medie Imprese) generano in Italia il 66,9% del Pil complessivo, un valore superiore alla media Ue del 56,4%. La quota di occupazione generata dalle PMI è ancora maggiore, al 78,1%, rispetto alla media Ue del 66,6%. Le microimprese sono particolarmente importanti, fornendo il 44,9% dell’occupazione, rispetto alla media Ue del 29,7% (fonte: Commissione Ue).
La relativa frammentazione del sistema economico italiano può essere apprezzata guardando le statistiche sulle grandi imprese. Nel 2020 la quota del Pil italiano sul Pil mondiale era pari a circa il 2,5%. Nello stesso anno la classifica di Fortune 500 elencava 8 aziende italiane, corrispondenti a meno del 2% del totale (fonte: Wikipedia). Considerando che circa il 60% del totale è costituito da società con sede in 10 Paesi (Cina, Usa, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Corea del Sud, Svizzera, Canada e Olanda), il divario dell’Italia con questi Paesi è ancora maggiore.
Molte delle grandi aziende italiane rimaste in campo sono rappresentate da società ex statali che sono state (in tutto o in parte) privatizzate (per esempio, Enel, Eni, Telecom). Molte imprese italiane un tempo gloriose hanno subito un drastico ridimensionamento (per esempio, Olivetti, Italtel); altre società sono state rilevate da competitor stranieri (AnsaldoBreda, Candy); altre grandi aziende sono da tempo alle prese con difficoltà strutturali (per esempio, Alitalia, Ilva). Larghe quote di alcuni settori di attività (per esempio, alimentare, lusso) sono controllate da holding non italiane.
Ecco, il destino di via Luraghi ad Arese è una metafora dell’involuzione subita dall’economia italiana negli ultimi 30 anni: sottrazione di grandi aziende, addizione di piccole aziende e negozi. Una perdita di complessità per l’economia che ha generato un saldo negativo per l’occupazione e innescato un trend discendente per i salari. La spina dorsale dell’economia italiana ha ormai un’ossatura molto fragile, una collezione di vasi di coccio sempre più in affanno nell’oceano della globalizzazione.
Al calar della sera, il museo dell’Alfa archivia un’altra giornata di ricordi. Sullo sfondo, le luci sfuocate e il brusio indistinto del Centro.
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