Nella tarda mattinata di ieri, a Palazzo Montecitorio, il Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo ha illustrato il “Rapporto annuale 2022. La situazione del Paese“. Nel corso dell’intervento sono emersi alcuni dati incoraggianti per il Bel Paese, primo fra tutti l’effettiva riduzione del debito nel corso del 2021. Nel recente passato, chi avrebbe scommesso su codesta verità?



Noi, e senza indugio, infatti, nel clamore di molti (probabilmente quasi tutti), dichiaravamo un anno fa: «Ora, guardando e facendo i conti in tasca (alle nostre tasche), l’andamento del debito pubblico nazionale è ancora visto in crescita per alcune (poche) rilevazioni mensili, ma entro la fine dell’anno o al massimo nei primi mesi del 2022 (con buone probabilità entro il primo trimestre) siamo fiduciosi nel poter assistere a un ripiegamento (anche significativo) dopo parecchi anni di continua crescita».



Oggi, luglio 2022, il dato è certo, acquisito, e ormai parte della storia come doverosamente riportato nella pubblicazione dell’Estratto della sintesi di quanto divulgato alla Camera dei Deputati: «Dopo l’eccezionale crescita del deficit e del debito del 2020, che sommava gli effetti dello squilibrio di bilancio e della caduta del Pil, nel 2021 il quadro di finanza pubblica ha segnato un sostanziale miglioramento. Nonostante il disavanzo sia rimasto ancora al 7,2 per cento del Pil, il forte rimbalzo dell’attività ha consentito di ridurre il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti percentuali: siamo al 150,8 per cento, con un calo più ampio di quello previsto nei documenti programmatici». 



Di questi tempi, per noi italiani, apprendere in una nota ufficiale che i risultati economici conseguiti rappresentano qualcosa di meglio rispetto al previsto (nei cosiddetti «documenti programmatici»), conferma il tanto auspicato segno di discontinuità con il passato. Ma solo questo non può bastare. Ricercando, infatti, qualche elemento sull’annoso tema dell’inflazione, la lettura si scontra con un’amara verità: «L’accelerazione inflazionistica che ha caratterizzato la seconda metà del 2021 e i primi cinque mesi del 2022 rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, particolarmente marcata proprio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per effetto delle tempistiche dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori caratterizzati da bassi livelli retributivi». 

Le disuguaglianze, proprio loro, quelle che già su queste nostre pagine portavamo all’attenzione di tutti. Nello specifico, il Rapporto Istat illustra la dinamica causale di questa temuta futura realtà: «Gli aumenti delle quotazioni delle materie prime – in particolare quelle energetiche – iniziati nel corso del 2021 hanno determinato una spinta senza precedenti nei costi di produzione e una fiammata inflazionistica di intensità pari a quella dei primi anni Ottanta. Le stime preliminari sull’inflazione di giugno sono di una crescita tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari all’8,5 per cento in Italia, e all’8,6 per cento per l’Uem». E guardando al nostro immediato futuro: «La forte accelerazione dell’inflazione è stata finora molto concentrata nei comparti più direttamente legati alla crescita dei prezzi delle materie prime, ma va progressivamente diffondendosi». 

Quest’ultima “progressione”, di fatto, preoccupa gli stessi autori del rapporto: «A giugno, Il tasso di inflazione acquisito per il 2022, misurato sull’indice per l’intera collettività (NIC), è pari al 6,4 per cento ed è verosimile che le spinte sui costi alimentino ulteriormente il processo, anche se le tensioni sulle quotazioni internazionali si dovessero allentare». Ecco l’ennesima amarezza italiana. I dati finora registrati non sembrano sufficienti a poter soddisfare le precedenti stime pubblicate dallo stesso Istituto. Infatti, per i restanti mesi dell’anno «è verosimile» che il conto che dovremmo pagare risulterà più alto rispetto all’attuale. Guardando a solo un mese fa, questo scenario, appariva alquanto probabile: da queste pagine avevamo ipotizzato di un eventuale e ormai prossimo «errore di valutazione» in capo ad Istat, ma oggi, “confortati” dall’odierna ammissione di colpa da parte dell’Istituto, possiamo confidare in una «verosimile» certezza di errore nell’allora previsione. 

Per avere la definitiva realtà dei fatti dovremmo attendere la conclusione della seconda parte dell’anno ma, fin da ora, un nuovo dubbio desta la nostra attenzione: quando si inizierà a parlare di vero pericolo di recessione? Prima anche attraverso errate stime o sempre e solo dopo il fatto compiuto? 

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