Com’era prevedibile il “caso manganelli” continua: nelle piazze e fra i grandi palazzi romani. Da un Quirinale ritrovatosi un po’ sotto pressione dalla congiunzione degli ultimi eventi, è partito l’invito ad “abbassare i toni”: subito raccolto da Giorgia Meloni, che venerdì ha cancellato la sua conferenza stampa alla Casa Bianca e inviato poi dal Canada segnali misurati e distesi verso Roma.
Sabato intanto – dopo il polemico intervento del Quirinale contro i “manganelli” – i cortei filo-palestinesi e anti-Israele si sono ripetuti e moltiplicati: nella stessa Pisa, a Firenze, Milano e Roma. E stavolta gli slogan di studenti, giovani di centri sociali, sindacalisti e altri antagonisti pacifisti sono risuonati forti e chiari. Tutti di tono anti-sionista e in netta rotta di collisione con la “tolleranza zero” per ogni antisemitismo rilanciata un mese fa all’ultima Giornata della Memoria, da parte delle massime autorità dello Stato come dalla comunità ebraica.
Ne ha fatto qualche spesa anche una figura simbolica come quella della senatrice a vita Liliana a Segre, nominata da Sergio Mattarella per la sua testimonianza della Shoah. Il suo nome – solitamente accompagnato da calore unanime – è invece stato accomunato in qualche contestazione a quello della Premier. Ma tanto è stato negli ultimi due fine settimana: le forze di polizia sono sempre intervenute – due giorni fa fortunatamente senza incidenti – a protezione di “luoghi sensibili” come sinagoghe e altri centri israeliti. Chi sta sentendo e portando la responsabilità di difendere dall’antisemitismo la Presidente della Commissione parlamentare sui fenomeni d’odio è il Governo di centrodestra: assai più di un Pd sempre ondeggiante sul Medio Oriente, anche quando ha come leader la figlia di un politologo “liberal” israelita. Sembrano comunque lontani i tempi in cui la Senatrice reduce da Auschwitz venne “catturata” dalla campagna politico-mediatica “contro l’odio”, sostenuta dalle giovani sardine di centrosinistra a supporto decisivo di Elly Schlein nelle ultime regionali in Emilia Romagna. Ma le bombe di Gaza hanno colpito anche solide vicinanze costruite in Italia fra i settori progressisti della comunità israelita e aree della sinistra storica e del cattolicesimo democratico.
Sabato, non per caso, “i manganelli di Pisa” sono stati protagonisti anche alla manifestazione-comizio del Pse a Roma, ospite del Pd per il lancio italiano della campagna elettorale per il rinnovo dell’euro-parlamento. “Noi stiamo con Mattarella, i ragazzi manganellati sono un fallimento, bisogna stare assieme contro le destre estreme”: questo hanno rilanciato i media dell’intervento dello “spitzenkandidat” dei socialdemocratici europei, il lussemburghese Nicolas Schmitt, affiancato da Schlein. Assieme hanno dunque issato il Presidente italiano – fondatore del Pd – al ruolo iconico di “candidato di punta onorario” del Pse in Italia al voto del 6 giugno.
A maggior ragione, il caso Mattarella-Meloni non sembra affatto chiuso. Lo stesso “tempo supplementare” del voto regionale in Sardegna si ricongiunge senza discontinuità alla riapertura del confronto della riforma del premierato. Fra i pochi costituzionalisti a intervenire finora – subito a urne aperte in Sardegna – è stato l’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Ha osservato come “i manganelli di Pisa” sarebbero un esempio plastico dello stile di governo della Premier in carica in formato “premierale”. Un approccio forse più politicamente partisan che giuridicamente analitico quello di Zagrebelsky: nel quale, comunque, è rientrata automaticamente la giustificazione del fulmineo feedback istituzionale del Quirinale, quando ha voluto strigliare direttamente il Viminale, scavalcando Meloni in missione G7 a Kiev.
Più comunque si sono allontanate le “cento ore” concitate fra gli incidenti di Pisa, l’affondo del Quirinale e lo spoglio del voto sardo, più si sono moltiplicati i dubbi su una reale “emergenza democratica”, tale da autorizzare il Quirinale a oltrepassare senza remore la linea rossa che nell’architettura costituzionale italiana separa la Presidenza dall’esecutivo (e in particolare dai singoli ministri) riguardo la conduzione della “politica generale del Governo”.
In una Repubblica parlamentare l’Esecutivo e il suo Premier rispondono di ogni loro atto alle Camere, non alla Presidenza. La Carta riserva al Quirinale una varietà di strumenti propri per esercitare le sue prerogative di garanzia sui diversi poteri dello Stato. Oltre ad assegnare l’incarico al candidato Premier e a ricevere poi il giuramento dell’Esecutivo, il Presidente firma i decreti (e può motivare sia le promulghe che i rinvii) e può inviare messaggi alle Camere; un potere quest’ultimo che – dai tempi di Francesco Cossiga – i costituzionalisti hanno generalizzato in una facoltà di “esternazione” a tutto campo. Ed è stato forse all’interno di questa prassi che all’indomani dei fatti di Pisa il Quirinale si è sentito autorizzato a dare pronta pubblicità alla “strigliata” al ministro dell’Interno. Un passo che fin dal primo istante ha però attirato vari interrogativi di ritualità. Sui fatti di Pisa, fra l’altro la Procura di Firenze ha subito aperto indagini, mentre una dirigente della Squadra mobile fiorentina è stata oggetto di un trasferimento immediato. Sembra pacifico che, in entrambi i casi, non lo abbia chiesto il Presidente (che guida anche il Consiglio superiore della magistratura): ma la cronaca, a questo punto, avrebbe potuto autorizzare a pensarlo.
È solo nella Francia semipresidenziale che il Presidente “presiede” il Consiglio dei ministri. Nelle grandi democrazie occidentali – tutte “premierali” quando non “presidenziali” (dalla Gran Bretagna alla Germania, dal Giappone a Israele) – il “capo dello Stato” si tiene rigorosamente invece lontano dagli affari di governo e dal confronto politico. È quindi comprensibile che molti opinionisti e costituzionalisti italiani appaiano oggi in silenzio pensoso.
L'”incidente di Pisa” puo’ aver offerto un assaggio di futuro premierato; ma intanto ha aggiunto una pagina robusta e problematica anche agli annali di un “semipresidenzialismo di fatto” già operante da decenni. Un passaggio che sembra per questo aver reso più urgente un aggiornamento evolutivo della Costituzione del 1948: che un’ala di politici ed accademici continua a invece giudicare “la più bella del mondo”, cioè intoccabile.
L’esito della fase riformativa appare in sé ancora abbastanza aperto, nei contenuti che verranno approvati dal Parlamento e prevedibilmente sottoposti a referendum popolare: E l’Italia resta una democrazia che nel 2016 ha clamorosamente bocciato per referendum un impegnativo progetto di riforma istituzionale firmato dal Pd di Matteo Renzi, con Mattarella al Quirinale.
Giorgia Meloni – che a differenza di Renzi ha vinto le ultime elezioni politiche – ha aperto fin dalla campagna elettorale il fascicolo “premierato”. L’opposizione (Pd e M5S) non è invece andata per ora oltre il “no alla proposta della maggioranza”. Questo principalmente per una pregiudiziale etico-politica (il premierato incarnerebbe una svolta “autoritaria” a prescindere, irricevibile per un’opposizione di centrosinistra); ma soprattutto per una questione di puro potere: pur non toccando le prerogative del Presidente (Meloni lo ha ribadito sabato), il compimento della riforma spingerebbe inevitabilmente per una conclusione anticipata del secondo mandato di Mattarella. E aprirebbe prevedibilmente la strada all’elezione di un Presidente non più espressione del Pd.
È però proprio sul Colle – lungo ormai quasi un ventennio – che due presidenti “dem” non hanno fatto che consolidare una prassi semipresidenzialista all’interno di una democrazia che la Carta disegna ancora come rigorosamente parlamentare. E sia Giorgio Napolitano (nella rielezione del 2013), sia Mattarella (nel 2015 e nel 2022) sono usciti dalle fila di un partito che da quando è nato nel 2007 non ha mai riscosso un successo pienamente legittimante in alcuno di quattro voti politici consecutivi. Nel 2011 Napolitano, con esemplare stile semipresidenziale, si è per parte sua spinto a rimuovere da palazzo Chigi il premier vincitore indiscusso delle elezioni 2008 (contro i “dem” del Presidente) per sostituirlo con un euro-tecnocrate nominato ad hoc Senatore a vita.
Se il caso “manganelli a Pisa” ha nuovamente evidenziato le crescenti anomalie istituzionali dell’Italia contemporanea, Mario Draghi sta intanto pungolando tutti i Paesi Ue ad accelerare su ogni percorso riformatore: al fine di rendere “competitive” le democrazie nazionali e l’Unione europea divenute adulte dopo la Seconda guerra mondiale e ora risucchiate nella Terza.
Draghi – Premier istituzionale di larghe intese prima del voto 2022 – due anni fa era candidato alla Presidenza: gli fu però preferito (da tutte le forze politiche salvo Fratelli d’Italia) un Mattarella-bis, proprio perché ritenuto più rassicurante nel tenere il Quirinale “dem” in un semipresidenzialismo ambiguo ma prezioso (come nel “ribaltone” del 2019). La questione riemerge però irrisolta, sempre più di frequente. Riaffiora nel 2024 quando il baricentro della democrazia istituzionale pare spostarsi con decisione verso l’Europa. Per il cui Parlamento si vota fra cento giorni. Mentre si continua a ripetere che Draghi è candidato alla “Presidenza del Consiglio Ue”. Cioè a “presidente della Repubblica” di unità e garanzia per un’Europa parlamentare a Strasburgo e “premierale” a Bruxelles.
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