Secondo il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, per il settore automobilistico c’è il rischio concreto della “scomparsa di interi segmenti industriali e la distruzione numerosa di posti di lavoro”. Il ministro si riferisce agli obiettivi sulla fine del motore termico imposti dall’Unione europea per il 2035 e chiede che venga ripristinato il principio della neutralità tecnologica. Al settore dovrebbero essere imposti obiettivi di riduzione della CO2, ma, all’interno di questi obiettivi, esso dovrebbe essere lasciato libero di scegliere senza un’opzione tecnologica predefinita, liberamente con una tecnologia che può anche basarsi sul motore termico. Questa però non è la strada su cui si è messa l’Unione che ha scelto una tecnologia, l’elettrico, a discapito delle altre.
Il motore elettrico è infinitamente più semplice di quello a combustione e questo si è sempre saputo. Si è sempre saputo che il cuore di un’auto elettrica è la batteria e il software con cui viene gestita perché, per avere autonomia, si deve dosarne l’uso. Si è sempre saputo, inoltre, che per ogni litro di petrolio in meno richiesto da un’auto a combustione ci vuole una quantità sostitutiva di energia elettrica che aumenta la domanda di elettricità complessiva del sistema. Era chiaro, quindi, fin dall’inizio che l’Europa avrebbe perso per strada tutte le attività e i posti di lavoro legati al motore a combustione e che avrebbe dovuto costruire una catena di fornitura affidabile per approvvigionarsi dei componenti necessarie alla batteria; in questo secondo caso sapendo che dentro l’Europa c’era poco o niente.
Il rischio, nella competizione per la leadership nell’elettrico, era quello di perdere i posti di lavoro e ritrovarsi con così poche forniture da dover imporre agli europei un tasso di possesso dell’auto molto inferiore a quello a cui si erano abituati; se le risorse sono scarse, i prezzi salgono e il possesso di un’auto viene discriminato sulla base del censo. Teniamo presente che fino a oggi gli europei hanno accettato un sistema di incentivi in cui i poveri trasferiscono risorse ai ricchi essendo che gli incentivi all’elettrico sono democratici, ma i prezzi delle auto elettriche molto meno.
C’erano tutte le premesse perché l’Europa, dal basso del fazzoletto di terra che rappresenta sulla totalità delle terre emerse, capisse di non avere le risorse critiche, di non avere spazio per tutte le rinnovabili necessarie, che consumano suolo, e che senza il nucleare, addirittura discontinuato dalla Germania, quadrare il cerchio della quantità addizionale di elettricità richiesta fosse impossibile. A tutto questo si aggiunge il rischio sociale e occupazionale di una cattiva gestione della transizione: nessun settore industriale, infatti, occupa tante persone quanto quello automobilistico.
Non è così però che ragiona la burocrazia europea. Essa, invece, annuncia obiettivi e brucia i ponti per non dare scuse per dilazioni; questo a prescindere dalla realtà così come appariva al settore automotive e ai suoi imprenditori. Oggi l’Europa prende coscienza di aver perso la competizione, difficilissima fin dall’inizio per ragioni strutturali, per l’elettrico e che questa sconfitta avviene al prezzo del sacrificio di un settore florido su cui era all’avanguardia; comprende che l’unico modo per dare agli europei auto elettriche a prezzi competitivi è quello di accettare le importazioni cinesi o, in alternativa, convincere la maggioranza degli europei a rinunciare alla macchina. Nel frattempo il settore è nel caos perché le società sono state costrette a investire male in segmenti su cui non avrebbero mai investito e invece a investire meno in quelli in cui avrebbero investito e su cui, per inciso, hanno continuato a investire tutti gli altri; questo include anche tecnologie “green” come l’ibrido o, anche se meno maturo, l’idrogeno. I danni rimarrebbero, e non pochi, anche se l’Europa cambiasse direzione in tempi brevi. Tutta l’industria europea, incluse le imprese energetiche, è stata costretta alla scommessa sull’elettrico perdendo terreno sul resto.
Il maggiore partito green d’Europa, quello tedesco, questa settimana ha cambiato leadership dopo tre tornate elettorali consecutive molto deludenti. Gli elettori forse non hanno capito esattamente cos’è successo, ma prendono per la prima volta coscienza di quanto costino i sogni green. Il problema però non è limitato al “green”, è l’approccio della burocrazia europea che è pericoloso e che miete vittime, come il settore auto, impunemente scaricando il conto degli errori sulle ignare famiglie europee.
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