Quando Roberto Benigni proclamava al cinema “Berlinguer ti voglio bene” – era il 1977 – il Pci vinceva elezioni a raffica, anche in Europa. Il suo segretario “eurocomunista” era ancora un outsider, poco meno che un escluso in una comunità europea ancora limitata a sette Paesi, tutti a ovest della cortina sovietica. Il suo europeismo – maturato in Italia nella stagione della solidarietà nazionale – fu una conquista politica alta e coraggiosa, il contrario della retorica da girotondo.
Nessuno ha mai dimenticato quando Berlinguer disse che da italiano si sentiva al sicuro sotto l’ombrello nucleare della Nato. E dire che il padre di Berlinguer, Mario, era stato uno dei senatori Pci che avevano condotto un’opposizione durissima all’adesione dell’Italia al Patto atlantico, nel 1949.
Berlinguer faceva – bene – il suo mestiere di leader politico e il giovane Benigni, allora, il suo di giullare contemporaneo: lontanissimo dal mainstream Rai (dalla quale, infatti, fu subito sospeso all’esordio per via dell'”Inno al corpo sciolto”). Questo fece sì che la foto di Benigni con in braccio Berlinguer diventasse iconica nell’album storico dell’Italia repubblicana.
Era il 1983 e i due avevano preso parte a una manifestazione di giovani comunisti al Pincio, poco sopra Piazza del Popolo, dove sabato scorso il diversamente-comico Michele Serra ha convocato per Repubblica un evento “per l’Europa”, con una partecipazione molto meno oceanica di quella milionaria che accompagnò i funerali di Berlinguer, a Roma il 13 giugno 1984.
Benigni sabato non c’era e ha voluto aderire a posteriori, anche sulla scia del tentativo di Repubblica di mobilitare in modo permanente le nuove eurosardine sulle piazze dei sindaci. Qualcosa a metà strada fra i venerdì verdi “gretini” e i sabati gialli francesi (questi, peraltro, anti-green contro il tecno-europeista Emmanuel Macron, capocordata europeo dei cattodem italiani).
A Benigni la Rai ha messo a disposizione il prime time serale sull’Uno, un palco approntatogli ad personam in tempo reale, etichettato Sogno, usato sicuro Martin Luther King. Non è stato uno show comico, ma un comizio retorico: l’ennesimo di una serie cui Benigni si è prestato – fra un Sanremo e l’altro – nella lunga stagione di governo para-dem sotto l’alta vigilanza (anche Rai) dei presidenti Napolitano e Mattarella.
Il comizio sulla tv di Stato – dopo il girotondo promosso da un giornale edito dalla famiglia Agnelli e pagato a piè di lista dal Comune dem di Roma – è stato puntato ad horas contro la premier Giorgia Meloni. Quest’ultima ha detto l’altro ieri in Parlamento che “l’Europa di Ventotene” non è la sua: in risposta – politica – all’evento di sabato, costruito anche attorno al Manifesto di Ventotene distribuito da Repubblica.
La premier lo ha fatto alla Camera, parlando dal banco del governo, illustrando la posizione italiana sulle decisioni cruciali sul tavolo oggi e domani al Consiglio Ue. È stata investita – in Senato e poi sui media – da un uragano di critiche etico/estetiche, a coprire lo sfilacciamento politico-culturale della sinistra di fronte alle dure sfide odierne. Le stesse divisioni evanescenti erano state visibili sotto le bandiere arcobaleno di Piazza del Popolo.
Berlinguer – che pure ricorreva alla perfezione a tempi e modi della piazza – avrebbe verosimilmente fatto l’opposto: nella sede istituzionale della sovranità democratica avrebbe incalzato il governo sul merito delle questioni in discussione. Oratore anti-retorico per eccellenza, avrebbe forse invitato lui Meloni a lasciar perdere i siparietti mediatici e i “libretti sacri” di ogni colore (certamente il comunista Berlinguer non era filocinese e neppure antiamericano d’occasione come lo è oggi il cattodem Romano Prodi).
L’intelligenza artificiale potrebbe forse ricreare – con esiti incerti – un confronto virtuale Berlinguer vs Meloni. Sempre più reale appare invece la riproposta della strategia dell’Aventino che la sinistra italiana adottò un secolo fa. Allora il fascismo era quello vero, non quello caricatureggiato in modo strumentale dall’opposizione a corto di argomenti. Gli squadristi mussoliniani avevano ucciso un deputato dell’opposizione e le leggi liberticide ebbero fra le loro vittime anche la Stampa di Torino (fu allora che il regime decise la cacciata della famiglia Frassati e l’ingresso della dinastia industriale degli Agnelli). Gli aventiniani, comunque, fallirono.
Cent’anni dopo la nuova opposizione politico-comica non pare avere null’altro da proporre che l’occupazione di una piazza romana, attorno a un libretto scritto ottant’anni fa, con la prefazione di un giornalista novantenne. Con la ola di rinforzo di (ex) comici settantenni.
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