Non è facile capire se il primo pronunciamento economico sull’Italia post-Covid da parte dell’Ue abbia disturbato il premier Mario Draghi o l’abbia tacitamente assecondato. È noto che Draghi non aveva obiezioni a togliere il blocco dei licenziamenti già il 30 giugno. Solo un pressing politico interno all’esecutivo (da parte del ministro Pd del Lavoro, Andrea Orlando) ha partorito un mini-compromesso: che ha contenuto le opposte reazioni delle parti sociali.



Una “pausa estiva” supplementare non può che rivelarsi utile a tutti per preparare la “ripartenza” sicuramente più problematica: quella dell’industria, dove sono concentrati gli esuberi finora nascosti dal blocco e dagli ammortizzatori sociali d’emergenza in azione da 14 mesi. Una buona riapertura del turismo (e in senso lato una tendenza alla normalizzazione da parte del settore commerciale e dei pubblici esercizi) può contribuire in modo non trascurabile alla gestione della “crisi di settembre”: non solo in termini di clima socioeconomico, ma anche di offerta concreta di posti di lavoro a fronte di prevedibili “job” cancellati altrove.



Certo, i tecnocrati di Bruxelles – usciti parecchio malconci dalla pandemia – non si sono lasciati sfuggire l’occasione per tornare a una vecchia abitudine: “Ad ogni rapporto semestrale picchiamo sull’Italia, loro sanno perché”. È stato così che hanno subito ricordato che i parametri di Maastricht torneranno in vigore già nel 2023: ben prima dell'”orizzonte 2027″ disegnato dal Recovery Plan.  È vero che “nel 2023” i parametri di Maastricht potrebbero essere diversi da quelli in vigore dal 1992 fino al 2020 (il cantiere di riforma aprirà quando sarà insediato il nuovo Governo tedesco, dopo le elezioni di settembre). Ma è vero anche che già oggi il rapporto debito/Pil italiano è a quota 160 (cioè molto oltre alla “quota 130” pre-Covid, che era già oltre la linea rossa). Ed è vero – soprattutto – che le prime scintille d’inflazione cominciano ad annunciare la fine dell’era dei “tassi zero”. Quindi il ritorno di uno scenario problematico per un Paese la cui apparente “normalità” sul fronte del debito è in realtà garantita dal “Quantitative easing” della Bce. In Italia d’altronde, il decennale del 2011 “horribilis” sta passando inosservato mentre sembra già dimenticata anche la “gaffe” di Christine Lagarde nei drammatici giorni del marzo di un anno fa (“Non è compito della Bce ridurre lo spread dell’Italia”).



Criticando la proroga – peraltro breve – del blocco dei licenziamenti, l’Ue ha con molta probabilità voluto lanciare all’Italia (forse più ai partiti che al Premier) un “early warning” sull’accumulo di quello che proprio Draghi ha definito “debito cattivo”. E il vero motivo di preoccupazione – a Bruxelles e forse anche a palazzo Chigi – è che “l’assistenzialismo assoluto” lanciato dalla maggioranza Conte-2 in chiave quasi ideologica e certamente elettoralistica possa condizionare l’azione di governo nella delicata fase di “semestre bianco”. Se il tema “blocco dei licenziamenti” si misura da un lato con i parametri di Maastricht (oggetti tecnocratici, oggetto di imminente confronto politico europeo), dall’altro è strettamente connesso con il futuro del reddito di cittadinanza (cavallo di battaglia – populisticamente vincente – di M5S al voto 2018 e vero oggetto politico del contendere in vista del voto 2023).

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI