Un limite di due mandati per il capo dell’esecutivo: otto anni o al massimo dieci, volendo rispettare il canone quinquennale della legislatura parlamentare, esteso in Europa. L’idea sembra copiata dalla regola fissata da Beppe Grillo o Davide Casaleggio per i parlamentari M5S (e oggi molto dibattuta).
Ma è evidente che la proposta di Bernd Althusmann, leader della Cdu in Bassa Sassonia, per una riforma costituzionale tedesca guardi principalmente alla presidenza americana. Un primo appoggio convinto gli è comunque giunto da Annalena Baerbock, 40enne candidata dei Verdi a cancelliere alle elezioni politiche in programma a fine settembre.
Fra cinque mesi si concluderà dopo sedici anni il “regno” di Angela Merkel, cancelliere per quattro volte consecutive (anche se dal 2009 in coalizione sempre meno “grande” con la Spd). Quattro mandati: come Helmut Kohl, cancelliere della Riunificazione, in carica ininterrottamente dal 1982 al 1998. Fra lui e “l’allieva” Merkel i sette anni del socialdemocratico Gerhard Schroeder, un secondo mandato interrotto da un voto anticipato perduto. In quasi quarant’anni la Germania ha avuto tre soli capi dell’esecutivo. Nei 72 di storia della Repubblica federale, sono stati in tutto solo otto: la stabilità è sempre stata “l’articolo zero” della Costituzione tedesca del dopoguerra. E i risultati non sono facilmente negabili.
La ricostruzione di un Paese completamente distrutto dalla tragedia nazista, il ricongiungimento con la Germania democratica, l’ascesa verso la leadership politico-economica dell’Unione europea: nessuno saprebbe immaginare oggi questi sviluppi storici senza figure protagoniste come Konrad Adenauer, Willy Brandt, Helmut Schmidt. Come Kohl e la stessa Merkel. E il confronto con gli altri Paesi della Ue – anzitutto la Francia – appare ancora largamente a vantaggio di Berlino.
Parigi opta bruscamente per il semipresidenzialismo dopo la crisi della Quarta Repubblica parlamentare e partitocratica, ma già dieci anni dopo il Maggio 68 caccia il generale De Gaulle. I francesi si affidano al tecnocrate liberale ed europeista Valery Giscard D’Estaing, ma lo puniscono alla prima verifica settennale. Sterzano per quattordici anni verso il vetero-socialismo di François Mitterrand, via via intinto di realpolitik ritmata dal declino fisico del presidente. Poi un rigurgito gollista rilancia per due mandati Jacques Chirac e infine – col mandato ridotto a 5 anni – si avvicendano due presidenti incolori discussi, nessuno dei due rieletto: il centrista Nicolas Sarkozy e il tardo-socialista François Hollande. Chirac e Sarkozy finiscono poi sotto processo per corruzione. Nel 2017 sale all’Eliseo l’ancora più indefinibile Emmanuel Macron: sotto la cui presidenza, già prima della pandemia, i sabati dell’Esagono francese (dove il 72% della popolazione ha un reddito disponibile inferiore alla media Ue) vengono messi a ferro fuoco dai Gilets Jaunes. Marine Le Pen, leader familista della destra nazionalista è in testa ai sondaggi per le presidenziali della prossima primavera.
L’estrema sintesi della storia politico-istituzionale dell’Italia repubblicana – l’altro grande Paese fondatore dell’Ue – parla anzitutto di mezzo secolo di “stabilità” generata dal parlamentarismo partitico, prima intervallato dal centrosinistra organico e poi da un’effimera solidarietà nazionale aperta al Pci, È seguito poi un ventennio di “Seconda Repubblica” caratterizzato da un’alternanza ben poco stabile fra l’anomalo centrodestra di Silvio Berlusconi e un centrosinistra capace di affastellare tre esecutivi in una sola legislatura perfino dopo la vittoria dell’Ulivo nel 1996. Da dieci anni, in ogni caso, una sorta di “Terza Repubblica” è connotata nei fatti da una democrazia a bassa intensità: segnata agli antipodi da due premier tecnici. Nel mezzo spicca il premierato “stabile” di Matteo Renzi, non legittimato però da una vittoria elettorale e bruscamente concluso da una sconfitta referendaria. Negli ultimi tre anni l’Italia è stata invece governata dall’anomala “stabilità” di Giuseppe Conte: premier non eletto, prima bi-populista, poi “ribaltonista” e infine gestore di “pieni poteri” in tempi di Covid. Comunque: dal 1946 a oggi trenta premier si sono alternati a Roma alla guida di 67 esecutivi. Il primo (Alcide De Gasperi) presiedette otto governi consecutivi, ma per meno di otto anni. Giulio Andreotti fu sette volte premier ma per cinque anni in tutto nell’arco di una ventina. Silvio Berlusconi – capo di quattro governi e vincitore di tre elezioni maggioritarie – è rimasto in carica in tutto per poco più di nove anni, ma in tre tranche distinte fra il 1994 e il 2011. Prodi 1+2 è durato meno di una legislatura fra il 1996 e il 2008. E il politico bolognese non è mai stato candidato per la riconferma.
Perché la Germania sembra voler mettere in discussione oggi il suo modello di stability governance più che apparentemente vincente? Può darsi che il ballon d’essai sul limite di mandato per il cancelliere non trovi sbocco, ma non è di poco significato in sé. È un dato oggettivo che le decisioni più controverse della Merkel siano state prese dopo il decimo anno di permanenza alla cancelleria di Berlino, con un consenso elettorale in progressiva caduta: a cominciare dall’apertura a un milione di profughi siriani nel 2015. È indubbio che essa abbia contribuito in modo determinante all’ondata di piena xenofoba e neonazista di Alternative fur Deutschland, soprattutto nei land orientali. Ma è stato negli ultimi due anni – anche in seguito a problemi di salute della cancelliera, mai del tutto precisati – che la Germania ha cominciato a fidarsi sempre meno della sua mano “stabile”.
La gestione delicatissima delle nomine europee dopo il voto 2019 si è risolta in un fallimento per Merkel: pur con la designazione a Bruxelles della tedesca Ursula von der Leyen. Il contrasto alla pandemia è stato inizialmente efficace sul piano sanitario, ma un anno dopo è ai limiti del disastro, sia nella campagna vaccinale, sia soprattutto nella gestione delle pressioni socioeconomiche alla riapertura portate principalmente dai land federali. Nel frattempo, la “restaurazione” post-trumpiana di Joe Biden in America ha semmai accentuato l’impasse geopolitica della Germania: tuttora proiettata verso difficili “dialoghi” con Russia (per il gasdotto Nord Stream 2) e Cina. Perfino la politica di maxi-stimolo fiscale in deficit varata da Washington (mentre la Fed continua in una politica monetaria espansionista) mette in imbarazzo il rigorismo tedesco. Non da ultimo: lo scandalo WireCard ha scoperchiato nell’Azienda-Germania livelli insospettati di malaffare a cavallo fra politica e finanza.
La sindrome di “fine impero” era già stata fatale – oltre che a Mitterrand in Francia – alla Cdu di Kohl: contro cui, però, negli anni dell’ opposizione a Schroeder la giovane Merkel si era imposta con un guizzo finale di netta discontinuità. Nel 2021 la cancelliera ha invece usato tutto il suo potere residuo per imporre come suo candidato-successore il notabile Cdu Armin Laschet: grigio e “continuista”. È stata respinta con fastidio la disponibilità di Markus Soeder: il leader della “cugina bavarese” Csu, più giovane e popolare nei sondaggi (dalla Csu veniva anche Manfred Weber, il candidato tedesco del Ppe per la presidenza della commissione Ue, bruciato alla fine dalla stessa Merkel a favore di von der Leyen).
La stessa scommessa di Baerbock – quella dei Grunen, accreditati da qualche sondaggio come primo partito nel futuro Bundestag – si basa sulla “stabilità negativa” impressa dal merkelismo su un terreno cruciale: la doppia transizione ecologica e digitale, alle radici stesse del Next Generation Eu. L’industria dell’auto e quella chimica sono i due pistoni dell’Azienda-Germania: frenano da sempre sulla svolta green e perfino su quella web. E a contenerne le spinte conservatrici non poteva essere certo Merkel IV: anziana, variamente acciaccata e sempre più portata alla mediazione di corto respiro. Ma è così che la Cdu è precipitata ai minimi storici. E in Germania – nel suo stesso partito – si comincia a dire: “Mai più un cancelliere per 16 anni”.
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