Esistono tanti aggettivi per qualificare un sindacato. Alcuni sono di natura tecnica: orizzontale, verticale, territoriale, di categoria, confederale, di base, nazionale, internazionale. Altri hanno una caratura politica: sindacato movimento o associazione, di classe, corporativo, generale, giallo, autonomo, rivendicativo, partecipativo e quant’altro. Ci fermiamo qui con le definizioni, ma convinti di aver chiarito i concetti. Negli ultimi anni ha fatto la sua apparizione una nuova tipologia: il sindacato in transizione verso il modello partito. In breve: il sindacato transgender.



Abbiamo imparato il significato di questa parola: è un termine usato per indicare le persone la cui identità di genere non corrisponde al genere e/o al sesso che è fu certificato sull’atto di nascita. Nella nostra metafora, la politica è tuttora il tratto comune delle due fattispecie considerate (anche un sindacato agisce in politica); la differenza sta nei contenuti e nelle metodologie dell’iniziativa che contraddistinguono un sindacato e un partito. Il primo negozia con le controparti le condizioni del rapporto di lavoro dei soggetti che rappresenta come attività specifica che tuttavia non esclude un’attiva partecipazione ai temi più generali dell’economia e del vivere civile di un Paese per le loro ricadute sulle classi lavoratrici. Il secondo, da solo o in coalizione con altri partiti, si candida alla guida di una comunità chiedendo un consenso per il suo programma che porta avanti, sia in posizioni di maggioranza che di opposizione nell’esercizio delle funzioni esecutive e legislative. In base a tali premesse possiamo definire transgender un’organizzazione sindacale, che si caratterizza sempre più nel sostenere e nel mobilitarsi su temi politici, divenendo non solo una componente, ma un federatore del fronte delle opposizioni.



Il 27 febbraio scorso, l’Assemblea generale della Cgil ha approvato la strategia per la controffensiva di primavera contro il Governo Meloni e la sua maggioranza. Dopo averci provato senza successo con ben due scioperi generali (a sostegno di piattaforme rivendicative “fuori mercato” perché parlavano d’altro rispetto ai problemi affrontati nelle Leggi di bilancio) e con manifestazioni di popolo che hanno coinvolto, oltre alla Uil, più di 100 sigle rappresentative di varie istanze e umanità, anch’esse alla ricerca di una “via maestra”, il leader di corso d’Italia ha proposto di adottare un’inedita linea di condotta, che coinvolga – come nel caso della vertenza sul salario minimo – anche il fronte delle opposizioni. Infatti, all’ordine del giorno dell’Assemblea (che è la più importante istanza decisionale della Confederazione) era previsto l’avvio di una poderosa iniziativa politica, legislativa e referendaria che tenesse insieme una selezione di quesiti abrogativi del Jobs Act e di altre norme responsabili di quella “precarietà dilagante” (contratti a termine, voucher, rapporti di lavoro flessibili) che per Landini costituisce uno dei principali crucci, talmente assillante da non credere alle statistiche dell’Istat sul mercato del lavoro: tanto da snobbare 450mila assunzioni in più a tempo indeterminato nell’ultimo anno e le dinamiche relative gennaio dell’anno in corso, con una flessione, a dir la verità leggerissima (10mila unità) dell’occupazione, determinata dalla combinazione tra un aumento dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato (+5mila) e una diminuzione di quelli a termine (-15mila). Notizia per un verso positiva, perché conferma una tendenza in atto da molti mesi in merito alla stabilizzazione dell’occupazione (con buona pace delle geremiadi di Landini e dei suoi alleati), però al tempo stesso la spia del fatto che anche l’economia si sta stabilizzando.



C’è poi la questione del Trattamento di fine servizio dei pubblici dipendenti: un’ulteriore occasione per svergognare un Governo che in materia è arrivato a cose fatte da anni, a opera degli Esecutivi precedenti, ma che non ottempera alle sentenze della Consulta. Inoltre, perché non avvalersi (come ha fatto la Cisl sul tema della partecipazione) dell’iniziativa legislativa popolare per rilanciare la questione cruciale del salario minimo? È stato pur sempre il solo sprazzo di luce nell’azione politica delle opposizioni nell’attuale legislatura, nonché l’unica volta in cui sono riuscite, senza neppure rendersene conto e apprezzare il risultato, in difficoltà la maggioranza. Infine, c’è la madre di tutte le riforme del diritto sindacale: un progetto di legge sulla rappresentanza che dovrebbe sancire, nelle previsioni di Landini, il primato della Cgil e dei suoi satelliti. Per prepararsi a questa sfida la Cgil ha mobilitato la Consulta giuridica ben insediata tra i docenti di diritto del lavoro come abbiamo potuto osservare in tante altre occasioni.

Oltre vent’anni fa, i più determinati critici del Libro bianco e della Legge Biagi furono proprio i colleghi giuslavoristi del professore assassinato dalle BR. Come riferisce Nunzia Penelope in un articolo su Il Foglio, la decisione dell’offensiva delle pandette è stata sofferta, tanto da essere stata rinviata un paio di volte, perché all’interno della Confederazione, in particolare nei gruppi dirigenti delle federazioni di categoria, vi erano (e rimangono ora in silenzio) delle forti e motivate perplessità nell’avventurarsi in un’impegnativa campagna referendaria, con il rischio di non raggiungere il quorum come è avvenuto nelle ultime battaglie referendarie promosse o sostenute dalla Cgil (anche se questa volta – rebus sic stantibus nei post-elezioni – vi sarebbe l’adesione del Pd e del M5S). È nota, infatti, la situazione critica dei rinnovi contrattuali; più della metà per quasi 8 milioni di lavoratori sono scaduti e ciò contribuisce a spiegare perché le retribuzioni sono basse e in termini reali praticamente inadeguate rispetto al potere di acquisto. Nel 2023 le retribuzioni sono aumentate del 3,1%, circa metà del +5,9% fatto segnare dall’inflazione.

L’Assemblea generale, tuttavia, approvando la proposta del Segretario generale, ha accentuato quella transizione in corso non solo nel campo della linea politica ma anche per quanto riguarda la stessa natura della Confederazione. Da tempo la Cgil ha spostato l’iniziativa rivendicativa sulla politica e sui Governi: i temi prioritari riguardano il fisco, le pensioni e in sostanza le politiche pubbliche (come le misure di sostegno nel corso dell’emergenza sanitaria). I rapporti con le associazioni datoriali, negli ultimi anni, non sono esistiti, nonostante le sollecitazioni – non solo da parte dei Governi, ma anche della Confindustria e della Cisl – per un confronto per un patto sociale. I problemi non sarebbero mancati di certo: dai criteri per la salvaguardia delle retribuzioni dall’inflazione alle problematiche derivanti dall’introduzione delle nuove tecnologie; dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro alla revisione del sistema delle relazioni industriali e dell’assetto della contrattazione con l’obiettivo del miglioramento delle retribuzioni che non può prescindere da uno scambio negoziale a livello decentrato nella prospettiva di una maggiore e più qualificata produttività. Persino sul salario minimo sarebbe stato utile un confronto tra i protagonisti della contrattazione collettiva.

Se un sindacato dimentica le sue naturali controparti anche quando fanno dei profitti, limitandosi a chiedere che il Governo le sottoponga a una tassazione più elevata, abdica alla sua principale funzione che è quella di andarseli a prendere per distribuirli anche ai lavoratori, attraverso la contrattazione collettiva. Maurizio Landini ha avuto buon gioco nel sottoporre al voto e all’approvazione dell’Assemblea la sua proposta, ben consapevole che quanti nutrivano delle riserve non avrebbero avuto né la forza, né il coraggio di coalizzarsi in una strategia alternativa a quella del Segretario padre-padrone.

La consultazione referendaria sui temi del lavoro, nelle intenzioni di Landini, dovrebbe coprire il fronte sociale della battaglia – anch’essa referendaria ma confermativa – che le opposizioni promuoveranno sul terreno istituzionale contro le riforme del premierato e dell’autonomia differenziata. Anzi, su questi due temi la Cgil non esclude, se ci fosse la necessità, di assumere l’iniziativa in proprio. Quella di Landini è una visione di lungo periodo allo scopo di consentire alla sinistra politica e sindacale di stare in campo contro il Governo per tutto il tempo necessario, anche se fosse per l’intera durata della legislatura. Infatti, la strategia delineata richiede, anche a livello pratico/organizzativo, tempi cadenzati con quelli occorrenti al Governo per realizzare il suo programma. Poi verrà il giorno del Giudizio universale: quando il fronte della “via maestra” (già Coalizione sociale) sfiderà la destra in nome di un’alternativa globale (istituzionale, politica, economica e sociale) con l’obiettivo di ribaltare uno scenario costruito in arco temporale lungo e a opera di soggetti politici diversi dal Governo Meloni (anche appartenenti alla sinistra “deviata” accusata di aver tradito i lavoratori) e di “uscire dall’emergenza cambiando il modello di sviluppo”.

In sostanza, l’Assemblea generale del 27 febbraio ha posto una pietra miliare nel percorso di transizione della Cgil tra l’essere sindacato o diventare un partito magari sui generis. Un sindacato transgender, appunto.

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