Sulla vicenda del referendum il campo largo sindacale si è ristretto. A coltivarlo è rimasto un mezzadro solo: Maurizio Landini. Il suo podere è quello che vanta più ettari, ma senza gli altri due il segretario della Cgil non può formare quella che lui definisce una “coalizione sociale”, ma non un’iniziativa unitaria delle confederazioni storiche; ovvero il referendum diventa un’operazione politica, non un’azione di carattere sindacale.
La Cisl di Luigi Sbarra già si era dissociata dagli scioperi generali polverone portati avanti dalle consorelle negli ultimi anni. Quanto al referendum, il segretario della Confederazione di via Po è stato molto esplicito: “Il Jobs Act – ha dichiarato – è stato una grande riforma, non priva di lacune, ma anche con aspetti assolutamente positivi”; “Ha aiutato ad allargare ed estendere gli ammortizzatori sociali, ha contrastato la pratica delle dimissioni in bianco, ha allungato il periodo della Naspi, ha investito sulle politiche attive del lavoro, ha eliminato i contratti a progetto, ha combattuto il falso lavoro autonomo, i tirocini”, per cui, ha concluso, “fare di tutta un’erba un fascio è sbagliato, rialzare la bandiera anacronistica dell’articolo 18 è sbagliata”.
Un sindacalista che definisce “anacronistica” la riapertura della questione dell’articolo 18 mostra certamente uno spirito laico, soprattutto se esprime apprezzamenti positivi sul Jobs Act, che Landini considera la prova del tradimento compiuto da una sinistra obnubilata nei confronti dei lavoratori. In realtà, uno dei quesiti referendari si limita a chiedere l’abrogazione del dlgs n.23 del 2015, – uno dei decreti legislativi emanati in applicazione delle deleghe di cui è composto il Jobs Act, che istituisce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Il decreto non interviene sull’articolo 18 dello statuto, poiché istituisce, per gli assunti dal 7 marzo 2015 in poi, un regime contrattuale parallelo all’articolo 18 come novellato dalla legge n. 92/2012, il quale costituisce la disciplina generale per la tutela contro il licenziamento individuale illegittimo e che resterà in vigore in ogni caso perché non è compreso nel quesito abrogativo.
Ma dalla campagna di primavera della Cgil, prende le distanze anche il “compagno di merende” di Landini: il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri, il quale, durante una conferenza stampa in presenza dello stesso Landini, ha rilasciato delle dichiarazioni significative. “Non c’è dubbio che alcune leggi sul lavoro, a partire dal Jobs Act, siano sbagliate – ha sentenziato Bombardieri -, ma il referendum non è forse lo strumento giusto per cambiarle”. “Condividiamo – ha spiegato – la posizione della Cgil rispetto ai temi, ma crediamo che quello del referendum, dal punto di vista formale, sia un po’ superato dalla prassi democratica. Vedremo, ne discuteremo nei nostri organismi e con la stessa Cgil, e poi valuteremo. Comunque, in bocca al lupo a Landini e alla sua confederazione”. Ovvero, “va avanti tu, ché a me viene da ridere”.
In effetti, sia Sbarra che Bombardieri – uno per i contenuti, l’altro per lo strumento in sé – colgono il problema vero dei referendum della Cgil: è un’iniziativa antistorica, che vorrebbe riportare il diritto del lavoro all’interno di un “piccolo mondo antico” di cui è dubbia persino l’esistenza, benché in Cgil siano convinti di un suo possibile ritorno se soltanto si cancellassero gli errori del passato che non costituivano, secondo quel gruppo dirigente, un’adesione alle nuove realtà, a una transizione dei medesimi diritti in un mutato contesto di sostenibilità, ma rispondevano a una disponibilità alla rinuncia da parte di quanti avevano il compito di difendere i lavoratori. Come spiega Luigi Sbarra, “oggi la vera tutela che dobbiamo conquistare per le persone negli ambienti lavorativi si chiama formazione, si chiama investimento sulle competenze, si chiama apprendimento, conoscenza: è questo oggi il vero tema”.
Sul versante delle imprese, l’ex ministro Maurizio Sacconi in un articolo ha criticato, con la stessa logica di Sbarra, il quesito sugli appalti e subappalti: “Sul piano interno, la campagna referendaria avviata dal segretario della Cgil Landini ripropone rigidità il cui superamento sembrava acquisito. La penalizzazione di appalti e subappalti può frenare i processi di specializzazione. A tutto ciò si deve aggiungere un altro elemento di ritorno, quello del salario come variabile indipendente nella contrattazione collettiva, emerso in particolare nel negoziato relativo ai metalmeccanici. Al contrario – ha proseguito Sacconi – , la grande organizzazione delle imprese dovrà individuare modi con cui garantire il collegamento tra produttività e incrementi retributivi, anche attraverso la detassazione agevolata di quest’ultimi nell’ambito della riforma fiscale in corso di attuazione. Sono fronti oggettivamente aperti in una fase economica densa di incognite ma anche di opportunità”.
Eppure nei quesiti c’è un altro elemento di rigidità con riguardo ai contratti a termine, la cui liberalizzazione è frutto di una direttiva europea. Le causalità – da individuare nei contratti nazionali e non in quelli aziendali – devono giustificare il ricorso al lavoro temporaneo fin dall’inizio dei 24 mesi complessivi oltre i quali, in caso di prosecuzione, vi è la trasformazione automatica in contratti a tempo indeterminato. Nella normativa in vigore nei primi dodici mesi non sono richieste condizionalità. Se si arrivasse al referendum e questo quesito finisse per prevalere la disciplina del lavoro a termine diverrebbe più rigida di quella prevista dal c.d. Decreto dignità, la cui applicazione venne ben presto sospesa perché, anziché promuovere il lavoro stabile, penalizzava quello a termine, costringendo le aziende a non utilizzare dopo un anno lo stesso personale e a mettersi alla ricerca di nuovi “terministi”. Ciò anche durante l’emergenza sanitaria. Un milione di lavoratori, soprattutto giovani e donne, assunti a tempo determinato restarono a spasso per l’impossibilità ex lege di proroga e rinnovo del contratto scaduto.
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