Non ha certo torto Stefano Folli a chiedersi “chi foraggia i gilet arancioni del generale Pappalardo”. Una democrazia come quella italiana è fondamentalmente un sistema trasparente. E ha il diritto-dovere di difendere se stessa, se necessario entrando nel merito della storia politica del Paese: come ha fatto nel 1948 la dodicesima disposizione transitoria della Costituzione, che ha previsto il reato di apologia e ricostituzione del partito fascista.



Alla 74esima festa della Repubblica, tuttavia, non sembra facile risolvere tutto con richiami rituali o addirittura mitologici. Né sembra ragionevole – quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella rinnova il suo appello per l’unità del Paese nell’emergenza – continuare a distinguere fra italiani buoni e cattivi a prescindere. 



I gilet saranno “brutti, sporchi e cattivi” per eccellenza, ma pochi giorni prima centinaia di negozianti e ristoratori milanesi hanno fatto lo stesso a un chilometro di distanza. Erano egualmente arrabbiati con il governo Conte e sono incorsi nelle stesse denunce che ora colpiranno gli arancioni. E hanno subito dai “media” un trattamento forse peggiore: l’oscuramento.

Non molto meglio è andata ai rappresentanti dei giovani specializzandi in medicina che hanno dimostrato davanti a Palazzo Chigi. Una fotonotizia interna e via, niente prime pagine, meno che mai editoriali. Anche gli italiani “politicamente scorretti” non sono evidentemente tutti uguali: i “forconi” sono “eversori”, i giovani medici appena usciti dai reparti Covid sono “compagni che sbagliano”.



Sei mesi fa un movimento fino ad allora sconosciuto ha preso a riempire improvvisamente le piazze italiane di migliaia di persone, non di poche centinaia. Hanno preso a manifestare un disagio politico-sociale singolare: contrastando le forze politiche di opposizione, cioè augurandosi che il principio profondo della democrazia (l’alternanza competitiva) funzionasse il meno possibile in un Paese diviso fra “buoni” e “cattivi”, fra “veri democratici” e “fascisti”. Le “sardine” sono scese in piazza per difendere chi era ed è tuttora al potere: non troppo diversamente da come avviene in sistemi non democratici (da come avveniva nelle “adunanze oceaniche” di un’altra Italia).

Nessuno, comunque, si è chiesto chi fossero veramente le autonominate “sardine”: tanto meno “chi le foraggiasse”. A mezza voce, fra le righe degli stessi “media” che oggi strillano contro i gilet arancioni, si riferiva che Mattia Santori, l’autoproclamato leader, era un ricercatore del Rie, un centro studi della galassia emiliana proliferata all’ombra del quarantennale potere di Romano Prodi. Un “think tank”, il Rie, presieduto dall’ex ministro dell’industria Alberto Clò, poi a lungo consigliere dell’Eni. Un crocevia di relazioni che ha annoverato fra i suoi clienti-interlocutori British Petroleum, Gaz de France ed Exxon, Intesa Sanpaolo e il ministero degli Esteri, Confindustria e la Commissione Ue. Non Atlantia, la holding di Autostrade – privatizzate dal governo Prodi 1 – presso la famiglia Benetton. Ma questo non ha impedito a Santori e ai suoi discepoli di compiere un controverso pellegrinaggio a Ponzano Veneto: quando già era entrata nel vivo la “querelle” sulla revoca delle concessione dopo il crollo di Genova.

Ha ragione Folli: non è mai il momento di abbassare la guardia di fronte ai “rapporti opachi” nella politica italiana (su Repubblica ieri ha citato quelli fra Matteo Salvini e Casapound). Una democrazia “adulta” – direbbe Prodi – ha il diritto-dovere di sapere “chi foraggia chi” in Italia: con quali obiettivi e con quali metodi.

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