Sembra già remoto il giorno di fine febbraio in cui Giuseppe Conte ha assunto i “pieni poteri” di premier anti-pandemia rivendicando i panni di Winston Churchill tricolore. Negli ultimi giorni, semmai, sul premier italiano l’ombra di “Sir Winnie” sembra incombere per quanto a quest’ultimo accadde dopo “l’Ora più bella” del maggio 1945: non nell’“Ora più buia” del maggio 1940. Tanto che vale forse la pena di rammentare qualche particolare in più della lunga parabola dello statista britannico.
Nella patria della liberaldemocrazia elettorale – in Gran Bretagna si vota per il Parlamento dal 1708 – nel secolo scorso non si tennero consultazioni politiche per dieci anni: dal 1935 al 1945. Era già accaduto lo stesso per otto anni fra il 1911 e il 1919, a causa del primo conflitto mondiale. Non per questo la democrazia a Londra venne mai sospesa, al contrario: già prima del 1914 un Parliament Act aveva stabilito le regole per il rinvio del voto.
Nel 1940, quando gli elettori avrebbero dovuto rinnovare la Camera dei Comuni, il Paese era in piena emergenza: 330mila soldati erano appena rimpatriati in rotta dalla Francia, mentre Londra e le altre grandi città inglesi erano sotto i bombardamenti tedeschi. Il Parlamento deliberò il rinvio del voto fino a quando la guerra contro la Germania non si fosse conclusa. Il premier conservatore Neville Chamberlain – incerto negoziatore con Hitler nel 1938 a Monaco – lasciò Downing Street e Winston Churchill formò un governo di unità nazionale fra i tre maggiori partiti del Paese: i tory, il Labour e i liberali. Il leader laburista Clement Attlee – sconfitto nel ’35 – divenne vicepremier. Il gabinetto d’emergenza rimase in carica fino al Victory–Day del 1945.
L’8 maggio Churchill celebrò “our Finest Hour” assieme a milioni di britannici nelle piazze. Ma questi, in cuor loro, avevano già deciso che il premier che li aveva risollevati cinque anni prima dalla “Darkest Hour” e condotti alla vittoria in guerra non era il condottiero adatto per vincere il dopoguerra e ricostruire un Paese provatissimo, in un mondo radicalmente cambiato.
Il 15 giugno il re Giorgio VI sciolse i Comuni e il voto si tenne in tre scadenze fra il 5 e il 19 luglio. Nelle strade c’erano ancora le macerie provocate dalle ultime V2 naziste, centinaia di migliaia di soldati erano ancora schierati in mezzo mondo, lo Stato era iper–indebitato, la popolazione era stremata. Ma la consolidata “costituzione britannica” – per quanto non scritta – prevedeva che gli elettori tornassero immediatamente a esercitare la loro sovranità parlamentare per orientare una nuova fase storica per il Paese.
L’emergenza era finita, non c’era più forza maggiore a giustificare la leadership forte di Churchill, per quanto fondata su credibilità e popolarità personali enormi. La normalità doveva essere ripristinata al più presto e ovunque: nelle fabbriche, nelle case, nelle scuole, anzitutto a Westminster. Churchill aveva indebitato il Paese, ne aveva riconvertito l’industria, ne aveva rimodellato in via eccezionale la vita sociale, aveva guidato con mano ferrea quel gigantesco “investimento strategico” che era una guerra mondiale. Aveva portato a casa il risultato, ma ora il gioco cambiava radicalmente: bisognava assestare le finanze pubbliche fra vecchi e nuovi debiti, bisognava ridisegnare l’economia e la società e ricostruire le finanze pubbliche fra vecchi e nuovo debiti, fra vecchie e nuove tasse, fra vecchia spesa pubblica bellica e nuova spesa pubblica per un’Azienda–paese in tempo di pace.
Gli elettori britannici decisero che l’avrebbe fatto il Labour, rovesciando a suo netto favore i dieci punti di scarto inflitti nel ’35. Il 26 luglio – cinque mesi dopo la conferenza di Yalta – Attlee sostituì Churchill a Potsdam, al tavolo assieme al dittatore sovietico Stalin e al nuovo presidente americano Harry Truman. Fu lì che il nuovo premier britannico apprese che gli Usa disponevano della bomba atomica e che erano intenzionati a usarla subito per chiudere la guerra in Giappone. Ma Attlee non era più concentrato come il predecessore sullo scacchiere geopolitico: gli era anzi ben chiaro che la Britannia imperiale – paese-guida a livello globale ancora all’inizio del secolo – era avviata al declino definitivo (l’indipendenza dell’India è di appena tre anni dopo).
Il compito del nuovo premier laburista era un altro: la recovery interna di una “nuova Gran Bretagna”, cui Attlee dedicò un intero mandato di cinque anni. Fu lui a rifondare la Gran Bretagna come welfare state, secondo un modello che fece scuola a livello europeo, entrando in crisi solo per gli shock petroliferi negli anni 70 e venendo definitivamente archiviato da Margaret Thatcher solo negli anni 80.
Il simbolo di quel Regno Unito fu la nascita, nel 1948, del National Health Service, in coincidenza con le Olimpiadi di Londra, le prime del dopoguerra. La costruzione del primo vero servizio sanitario nazionale al mondo e l’organizzazione dei Giochi rientrarono in una vasta strategia di rilancio economico imperniata su nazionalizzazioni, aumento dell’imposizione fiscale e incremento degli investimenti pubblici. Fecero da bussola le nuove teorie coniate a Cambridge da John Maynard Keynes e già testate nel new deal con cui gli Usa avevano combattuto la Grande Depressione (nell’aprile 2020 il premier conservatore Boris Johnson ha pubblicamente reso merito al Nhs di avergli salvato la vita dal coronavirus e ha promesso una nuova campagna di investimenti strategici nel settore, anche in funzione di stimolo anti-recessivo).
Nel 1950 il Labour di Attlee rivinse le elezioni: ma di un soffio, nuovamente incalzato dai conservatori di Churchill. Il ritorno dei venti di guerra (fredda) ne aveva risollevato le quotazioni, mentre gli Usa si accingevano a issare alla Casa Bianca il generale Eisenhower, il condottiero “churchilliano” della vittoria delle democrazie occidentali contro Hitler. Fin dalla fine degli anni 40 era stato del resto “Winnie” a denunciare la “cortina di ferro” che l’Urss aveva calato sui Paesi dell’Europa orientale.
Nel 1951 il Labour si spaccò sull’impossibilità di tenere assieme il nuovo welfare con il budget militare imposto dalla guerra di Corea. Attlee fece quanto dettava la secolare prassi britannica: rimise agli elettori il giudizio finale. Il voto richiamò i tory di Churchill: che tuttavia non rovesciò diametralmente l’approccio di politica economica interna. Riprivatizzò l’industria metallurgica e spostò il focus-welfare sulla costruzione di alloggi popolari, ma soprattutto, nei quattro anni a Downing Street, tentò di rianimare le ambizioni imperiali della Britannia che lui continuava a incarnare.
Prima che la legislatura terminasse, comunque, tutto era finito per sempre: Churchill fu colpito da un infarto e nel 1955 dovette dimettersi. L’anno dopo l’incidente di Suez con l’Egitto di Nasser fu il capolinea di cinque secoli di dominio coloniale.