Il “brutto clima” evocato dalla premier Giorgia Meloni in vista del G7 in Italia e dell’euro-voto e il ritorno di fiamma dell’antisemitismo (anzitutto nei cortei studenteschi filo-palestinesi di Pisa) hanno bruscamente riproposto la “questione dell’odio”. Questa si era conquistata la ribalta della cronaca politica poco più di quattro anni fa, portando alla creazione in Senato di una commissione straordinaria di studio dei fenomeni di intolleranza, razzismi, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.
Alla presidenza della commissione, nell’autunno 2019, fu chiamata da subito la senatrice a vita Liliana Segre, la quale già in occasione della recente fiducia al Governo Conte 2 aveva denunciato con toni preoccupati i segni di un clima politico-sociale non lontanissimo, in Europa, da quello sfociato nella Shoah.
La commissione Segre – pur frenata dal Covid – ha protratto i suoi lavori fino al termine della legislatura. Nel giugno 2022 ha prodotto una relazione conclusiva, che ha avuto tuttavia un impatto politico-mediatico limitato. Ciò a dispetto di una raccomandazione finale chiara e perentoria: “La principale risultanza dei lavori dell’indagine è la richiesta al Parlamento di un intervento normativo urgente. Nell’attesa che a livello sovranazionale si giunga ad una definizione giuridicamente vincolante dei discorsi d’odio, i lavori della Commissione hanno mostrato la necessità di intervenire nell’ambito del diritto interno. È necessaria una forte e condivisa iniziativa politica e legislativa, intorno ad alcune misure dirimenti che possono essere messe in campo per contrastare la diffusione dei discorsi d’odio”.
Di un “disegno di legge Segre” – orientativamente bipartisan – non si è però mai vista traccia. Nel frattempo la commissione è stata ricostituita all’inizio della nuova legislatura ed è tuttora attiva, ancora sotto la presidenza della senatrice. Sembra quindi difficile ignorare il ruolo che la commissione potrebbe assumere se – con l’appoggio del Parlamento e del Quirinale (a Segre è andato l’unico laticlavio a vita finora assegnato da Sergio Mattarella) – potesse presentare una prima bozza di “legge sul contrasto al linguaggio d’odio”.
L’attualità preme sempre di più. Non da ultimo sabato scorso, la presidente dell’Ucei, Noemi Di Segni, è intervenuta su Repubblica alla vigilia di una manifestazione svoltasi a Roma con l’adesione della Cgil, a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza. La presidente della comunità ebraiche italiane ha contestato a Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, l’uso – anzi l’abuso – della parola “genocidio” a proposito dell’operazione militare speciale israeliana condotta a Gaza dopo la sanguinosa aggressione di Hamas del 7 ottobre.
“L’uso del termine “genocidio” – ha scritto Di Segni – ha un significato ben preciso non solo dal punto di vista legale-convenzionale ma nella storia dell’Europa. L’abuso del termine in troppe piazze e atenei italiani, in troppe sedi internazionali, genera non solo la banalizzazione e l’offesa alla memoria di chi è stato realmente perseguitato, ma legittima oggi proprio chi lo progetta – come Hamas – e chi lo sostiene anche in maniera subliminale con slogan che inneggiano alla cancellazione di Israele e alla “liberazione della Palestina”.
Il riferimento a “piazze e atenei” è un richiamo neppure troppo velato alle diverse manifestazioni studentesche svoltesi a Pisa: le prime represse dagli ormai proverbiali “manganelli” della polizia quando sono parse indirizzarsi verso “luoghi sensibili” israeliti; le seconde svoltesi senza disordini ma connotate quasi esclusivamente da violenti slogan anti-israeliani.
In Italia il presidente della Repubblica è intervenuto in modo energico per tutelare la libertà di parola e di manifestazione: anche contro Israele (anche contro la Senatrice Segre). Negli Usa le grandi università hanno invece punito alcuni studenti che hanno marciato contro Israele e rimosso alcune rettrici che non li hanno fermati. La domanda – fra le due sponde dell’Atlantico – resta dunque senza risposta, almeno finora. Quali atti e linguaggi configurano “odio” e quali invece rientrano nel discorso democratico? E quali strumenti repressivi dei “discorsi d’odio” sono efficaci e praticabili in un sistema democratico?
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