Caro direttore,
solo l’ipocrisia di un certo residuo perbenismo politico può negare che le presidenziali 2022 stiano maturando chiarimenti importanti, “strutturali” nella democrazia italiana: scossa – non diversamente dalle altre in Europa – da pressioni e tensioni sconosciute dai tempi della seconda guerra mondiale. Su questo sfondo è certamente scorretto deplorare come caotico e sterile lo scrutinio mattutino di ieri, il quinto: non fosse altro perché ha visto nei fatti contrapposte la prima e la seconda carica dello Stato. Sergio Mattarella fondatore del Pd ed Maria Elisabetta Casellati, ininterrottamente in Parlamento sotto le insegne di Forza Italia dalle elezioni del 1994, fondative della Seconda Repubblica.



La discesa in campo di Casellati, annunciata ieri mattina dal leader leghista Matteo Salvini, è stata una mossa di razionalità politica leggibile: è andata a contrastare la ricandidatura di fatto del presidente uscente, Sergio Mattarella, emersa  nel terzo e quarto scrutinio, “nel segreto dell’urna” al centro delle Camere riunite. La scommessa è stata assai più opaca della candidatura Casellati, ma non per questo meno decifrabile. Ha avuto – e ha mantenuto anche nel successivo scrutinio pomeridiano – l’obiettivo di una rielezione “per acclamazione” di Mattarella, per pretese esigenze di salute pubblica, a beneficio di un Paese al centro di infinite emergenze, eccetera.



Nel passato recente è già accaduto in almeno due occasioni: trent’anni fa con l’elezione del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro (democristiano come Mattarella) all’indomani della strage di Capaci; e – per parecchi versi – nel 2013 con il bis di Giorgio Napolitano all’indomani della “non vittoria” del Pd alle politiche. In entrambi i casi la manovra ha arriso al candidato di un centrosinistra che si considera tuttora proprietario privato del Quirinale: anche a dispetto dei pesi elettorali e quindi parlamentari.

A differenza del 1992 e anche del 2013, l’ipotesi Mattarella 2 ha preso forma e movimento in modo tortuoso. L’interessato ha più volte segnalato la convinzione ferma che il suo mandato fosse opportunamente al suo termine. Ma non ha mai respinto l’attenzione per la prospettiva di poter essere rivotato “dal Parlamento”. Ed è stato significativo il suo silenzio dopo i suffragi a tre cifre ricevuti da mercoledì in poi. I voti ieri sono prima scesi a 46, poi risaliti a 336: filbustering parlamentare puro, ad opera di mani neppure troppo nascoste. 



Al quinto scrutinio i peones del centrosinistra sono stati con tutta evidenza vincolati all’astensione di facciata proclamata da Pd, Leu e M5s: in una sorta di scandalizzato “Aventino” del ventunesimo secolo di fronte alla presidente del Senato, democraticamente eletta come Roberto Fico alla Camera e quindi candidata dal centrodestra al Quirinale. Ma già nel pomeriggio è ripreso il tentativo di “marcia sul Quirinale” da parte di un Pd ormai minoritario in Italia, poco meno del partito mussoliniano cent’anni fa.

Casellati con 382 voti non ha raggiunto il quorum al quinto voto ed è stata dichiarata subito “bocciata”, definitivamente perdente. Mattarella – in saliscendi da quattro scrutini – ha raggiunto invece  il massimo di 336 al sesto. Ma resta in lizza per la rielezione: come accadde a Enrico De Nicola, liberale tardo-borbonico, primo capo provvisorio della Stato nel 1946, intestarditosi a volere la riconferma nel 1948 (fu fermato da Alcide De Gasperi, che optò per il liberale europeo Luigi Einaudi). 

Quel che sembra difficilmente contestabile è che in soli cinque giorni Mattarella è passato dall’essere “presidente di tutti gli italiani” a candidato tattico del centrosinistra, anzi: di settori del Pd e di M5s smaniosi di replicare il “ribaltone” anti-Lega del 2019 (propiziato dallo stesso Mattarella).

Il presidente uscente sembra ridimensionato a oggettivo “scudo umano” di un centrosinistra incapace di dichiarare apertamente la sua contrarietà al passaggio di Mario Draghi al Quirinale, ma anche di proporre un proprio candidato diverso da Mattarella. Con un Pd afasico perfino di fronte a un nome come quello di Sabino Cassese.

A livello “strutturale” – nelle dinamiche politico-istituzionali – c’è però dell’altro. La presidente del Senato è la prima autentica candidatura “rosa” al Quirinale nella storia di una Repubblica che finora non ha mai avuto una donna né alla presidenza né a capo del governo. Il centrosinistra politicamente ipercorretto l’ha bocciata con toni disgustati, ma è lo stesso che non ha inviato una sola donna nel governo Draghi e che ha faticato a ricavare quote rosa nei suoi stessi organi di vertice.

Come notava qualche giorno fa Luca Ricolfi su Repubblica, le donne hanno ormai “sfondato il soffitto” nelle stanze del potere mondiale. Ma l’ormai ex cancelliere Angela Merkel, la presidente della Bce Christine Lagarde (ex ministro gollista in Francia), l’ex premier britannico Teresa May (trent’anni dopo Margaret Thatcher), la presidente della Commissione Ue Ursula von del Leyen hanno tutte in comune la provenienza da un centrodestra più o meno posizionato al centro o a destra dello scacchiere (Ppe, liberal-democratici o conservatori).

Nessuna donna S&D ha mai guidato la Germania, la Francia o la Gran Bretagna. Nessuna donna ha mai guidato gli Usa e l’unica candidata donna (la “dem” Hillary Clinton)  è stata clamorosamente battuta dal candidato repubblicano più anomalo della storia americana. Il centrodestra – sempre supposto “maschilista” o “sessista” – ha avuto il coraggio di formalizzare per il Quirinale una candidatura “rosa” (la seconda carica dello Stato) che il centrosinistra “unico rosa autorizzato” non ha mai avuto il coraggio di avanzare. Solo schede bianche o cripto-Mattarella: neppure duecento voti a una Emma Bonino “di bandiera”, alla carriera.

Ancora e non da ultimo: Casellati è stata da sempre parlamentare del centrodestra eletta nel Nordest. Anzi: la sua prima elezione nel 1994 ha segnato più che simbolicamente la sconfitta definitiva della Dc fino ad allora egemone nel quadrante della penisola. Era allora e resta oggi la Dc di Mattarella: anzi era il Pd “giallorosso” che – nel segreto dell’urna – lo ha candidato alla riconferma “a sua (ufficiale) insaputa”. È il magma politico Pd-M5s-Leu a sostanziale trazione-Sud che sta provando a strumentalizzare il presidente uscente (non è chiaro quanto contro la sua volontà) contro Draghi. Forse contando di chiudere poi la partita sul democristiano Pierferdinando Casini: in nome del primato della politica sulla tecnocrazia.

Il copyright del “politique d’abord” è di Pietro Nenni: che avrebbe ampiamente meritato di essere il primo leader della sinistra italiana al Quirinale. Ma il leader socialista mancò l’obiettivo per tre volte. Nel 1964 fu sorpassato dal socialdemocratico Giuseppe Saragat nella difficile successione al democristiano sardo Antonio Segni. Nel 1971 si logorò nel duello con il “cavallo di razza” Dc Amintore Fanfani, entrambi infine superati dal democristiano napoletano Giovanni Leone (con alcuni voti “in libera uscita” dall’Msi). Nel 1978 Nenni dovette applaudire Sandro Pertini, suo quasi coetaneo e compagno di lotte partigiane. Gli successe un altro democristiano sardo, Francesco Cossiga. Poi il Dc piemontese Scalfaro; quindi l’“indipendente di sinistra” Carlo Azeglio Ciampi; poi – per due volte – l’ex Pci e neo-Pd Giorgio Napolitano. Infine il vetero Dc e neo-Pd Mattarella. Primo siciliano al Quirinale.

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