Il diluvio di adesioni “last minute” al Partito del No in vista del referendum di domenica sembra meritare qualche riflessione specifica. Anzitutto perché conferma quanto la consultazione popolare imposta da M5s – su una riforma istituzionale di primo livello – stia finendo per essere nella realtà un puro pretesto di lotta politica. Tanto che perfino il risultato in sé del voto appare secondario: anzitutto ai “Noisti”.
Sia o no valido il sondaggio diffuso “per errore” dall’Ansa venerdì (75% di elettori orientato al Sì), sono altri gli esiti attesi dal Partito del No. Il primo è certamente l’affluenza. Anche in assenza di quorum, un referendum costituzionale snobbato da più della metà degli italiani (magari di molto) sarebbe di per sé un atto d’accusa contro il partito di maggioranza relativa e i leader grillini dell’esecutivo: il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che apparirebbero populisticamente distratti per opportunità politiche e personali di fronte alle gravi emergenze del Paese. Soprattutto in caso di affluenza bassa, farebbe certamente la differenza un No al 25% (come nel sondaggio “leakato” dall’Ansa) oppure al di sopra del 40%.
Ma il dato più cruciale sarà probabilmente l’accoppiamento fra l’esito del referendum e quelli delle sette elezioni regionali in programma domenica. L’effetto-traino per l’affluenza dato dall’election-day potrebbe essere politicamente controbilanciato da vittorie locali del No: a cominciare da quelle regioni dove i sondaggi danno in vantaggio l’opposizione.
In Veneto il governatore leghista Luca Zaia sarà confermato per un terzo mandato quasi certamente con una fiducia superiore al 70%. Se gli stessi elettori – prevedibilmente con un’affluenza importante – dovessero privilegiare il No, sarebbe clamoroso – e per certi versi drammatico – il disconoscimento del “governo del Sud” e della maggioranza giallorossa. Per quest’ultima, paradossalmente, potrebbe essere più importante una vittoria numericamente incontestabile – anche se magari risicata – nella consultazione nazionale piuttosto che un successo pieno nella difesa di Toscana e Puglia.
Quale che sia l’esito del voto, il Partito del No punta inequivocabilmente al superamento del governo Conte 2. Ma con strategie che non appaiono univoche.
Uno sbocco possibile è certamente una soluzione di continuità netta: un nuovo governo con una nuova maggioranza. In concreto: un esecutivo “di coalizione nazionale e salute pubblica”, per la cui guida quale l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, appare quasi un candidato unico. È a questo sviluppo che – presumibilmente – guarda il No pronunciato del leghista Giancarlo Giorgetti (peraltro in “libertà di voto” da parte del leader Matteo Salvini); ma anche quello dell’economista Carlo Cottarelli, “premier incaricato per un giorno” prima che Lega e M5s si accordassero due anni fa per il Conte 1. Gli sviluppi impliciti sono intuibili: nuovo azzeramento della politica del Paese; leadership tecnocratica della ricostruzione (in particolare degli aiuti Recovery Fund) e della stabilizzazione finanziaria; innalzamento del profilo della relazione fra Roma, Bruxelles, Parigi e Berlino (e Washington e Pechino); possibile “promozione” di Draghi al Quirinale nel 2022; preparazione – sotto la sua garanzia – di una “normalizzazione democratica” al prossimo voto politico.
Può darsi che anche il No più politicamente pesante finora, quella anticipato da Romano Prodi, non escluda una crisi di governo e un esecutivo Draghi di larghe intese. Ma è più probabile che punti invece come prima opzione a un rimpasto di governo in carica, con la permanenza a Palazzo Chigi di un Conte sostanzialmente ridimensionato. Lo “scenario Prodi” appare articolato ma coerente. Va mantenuta – per quanto possibile – la prospettiva del “governo Orsola” delineata proprio dall’ex premier dell’Ulivo un anno fa: esclusione a oltranza del centrodestra (e della Lega in particolare) dalla stanza dei bottoni; stretta “sintonia” (“dipendenza”) rispetto alla Ue franco-tedesca (dove i Pd italiani Paolo Gentiloni e David Sassoli sono già ufficiali di collegamento); gestione diretta ed esclusiva degli aiuti del Recovery Fund; riconquista del Quirinale fra 18 mesi (in prima battuta con la rielezione di Sergio Mattarella).
Appare evidente come questa “lunga resistenza” sarebbe funzionale anche a una ricomposizione del quadro politico. Come ha ricordato sabato al popolo della sinistra il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, il Pd al 20% non può pretendere di governare l’Italia, ormai in funzione para-tecnica di anomalo “partito della Nazione”. È stato un memo brutale – da parte di un ex dirigente Ds – del fatto che dalla sua nascita (nel 2007, con Prodi 2 a Palazzo Chigi e Walter Veltroni primo segretario) il Pd non ha mai vinto al voto: neppure all’inizio della legislatura piena poi governata dopo le elezioni 2013, solo grazie ai voti “responsabili” concessi da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi. Le euro-poltrone di Gentiloni e Sassoli sono state assegnate da Francia e Germania dopo nette sconfitte del Pse e del Pd alle europee del 2019.
Lo stesso Bonaccini non sarebbe riuscito a difendere dal centrodestra la roccaforte regionale di Bologna se lo scorso gennaio avesse potuto contare soltanto sul Pd timonato a Roma da Nicola Zingaretti (per la stessa ragione il centrosinistra ha via via perso metropoli come Roma e Torino, regioni come Liguria, Piemonte, Umbria, Friuli Venezia-Giulia, Calabria, Trentino-Alto Adige, rischiando oggi di perdere anche Puglia e soprattutto Toscana). Di qui la virtuale candidatura del governatore emiliano alla leadership del partito, dopo un congresso chiaramente “rifondativo”: già aperto al rientro di Renzi, della “Ditta D’Alema-Bersani”, degli irriducibili anti-grillini della sinistra estrema; ma anche alla re-inclusione di altre figure-schieramento, come Carlo Calenda ed Emma Bonino e soprattutto di sindaci settentrionali come Beppe Sala e Giorgio Gori.
In breve: il Pd vuol tornare a essere vincente nel 2023 come l’Ulivo di Prodi nel 1996. Nel frattempo vuole tuttavia continuare a governare da perdente, anzi: vuol diventare l’azionista di maggioranza di quello che comunque si configurerebbe come un “governo del Presidente”. Con un “tagliando” alla squadra dei ministri, come preannunciato ieri dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. In concreto: con Dario Franceschini promosso a “primo vicepremier” con funzioni commissariali rispetto a Conte; affiancato probabilmente ancora da un Di Maio 2, dal momento che – nominalmente – il partito di maggioranza relativa in Parlamento resta M5s.
Ma proprio il leader politico pentastellato – formalmente il capo del “Partito del Sì” – potrebbe dover fare personalmente i conti con un esito referendario particolarmente problematico. In questo caso, il “Partito del No” (forse quello nella sua versione più ristretta e trasversale) avrebbe raggiunto il suo obiettivo di fondo: neutralizzare – un anno dopo l’altro – i due “capipolo” vincitori delle elezioni di due anni fa.