L’avvicinarsi della scadenza per il rinnovo del Presidente della Repubblica e le nuove congetture sulla possibilità di un voto politico anticipato già nel 2022 hanno rilanciato il dibattito sul ruolo dei partiti in Italia.
Mario Draghi – secondo lo storico Ernesto Galli della Loggia – ha un profilo non dissimile da quello del generale Charles De Gaulle, chiamato nel 1958 a risolvere di netto la crisi della Quarta Repubblica francese, nettamente partitocratica. L’ex presidente della Bce, certamente, è il quarto fra i sei premier che si sono succeduti negli ultimi dieci anni a non essere un parlamentare eletto. Enrico Letta e Paolo Gentiloni – gli unici due presidenti del Consiglio con mandato elettorale – sono stati a Palazzo Chigi per poco più di due anni in un intero decennio.
Non era parlamentare Mario Monti, che strappò al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano un seggio di senatore a vita (nel 2013 guidò alle urne Scelta Civica, che però perse e presto si dissolse). Non lo era il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che nel 2014 divenne contemporaneamente leader Pd e premier per due anni e mezzo (nel 2018 è stato eletto senatore Pd, ma già l’anno dopo lo ha scisso facendo Iv). Non è mai stato parlamentare Giuseppe Conte: che ha guidato per due anni e mezzo due esecutivi contrapposti su indicazione di M5s ma senza appartenervi formalmente. Oggi è faticosamente divenuto presidente del Movimento, ma ha per ora rinunciato a presentarsi alle diverse elezioni parlamentari suppletive che si sono susseguite. C’erano attese di una sua “corsa” a Roma il 3 ottobre, ma l’ex premier ha perfino preso le distanze dalla ricandidatura M5s a sindaco di Virginia Raggi.
È invece candidato al rientro in Parlamento Enrico Letta, alle suppletive in calendario a Siena il 3 ottobre. Letta è stato deputato-premier per un anno dopo le politiche del 2013 (quando tuttavia il Pd “non vinse” ed ebbe bisogno dei parlamentari “prestati” da Silvio Berlusconi per varare un esecutivo di centrosinistra). Nel 2015 – dopo l’avvento di Renzi – Letta tuttavia si dimise ed emigrò a Parigi. Richiamato in Italia sei anni dopo, al crollo del governo giallorosso, pilota da sei mesi il Pd senza essere parlamentare. Ci riprova ora – in una match elettorale non privo di rischi – ma non sotto le insegne del “suo” Pd: con la visibile preoccupazione di non urtare il voto renziano Iv e quello pentastellato. Il tutto sotto la coperta – sostanzialmente anti-partitocratica – di un progetto di coalizione di centrosinistra.
Ma che il rapporto fra partiti, democrazia elettorale e istituzioni di governo sia in crisi principalmente a sinistra lo conferma la ricandidatura a sindaco di Milano di Beppe Sala. Da tecnico vicino al centrodestra, nel 2016 fu candidato da “non iscritto” al Pd, ma si affermò grazie all’appoggio di Renzi. Cinque anni dopo tenta la riconferma a Palazzo Marino con un nuovo logo “verde”: ma non quello dei tradizionali ambientalisti italiani, molti dei quali hanno trovato ospitalità nell’antagonismo grillino. Sala conta tuttavia sul loro voto a Milano: anche se M5s ha intanto candidato a sindaco Layla Pavone. Naturalmente il Pd resta “saliano”, anche se Sala non è formalmente “dem”.
Servono molte meno righe per articolare la situazione nel centrodestra: dove FdI (cui molti sondaggi recenti attribuiscono il ruolo di prima forza politica italiana) e Lega (largamente vincitrice dell’ultimo voto su scala nazionale, nel 2019) sono due partiti chiaramente identificati, niente affatto in crisi come veicoli di rappresentanza politica. E i loro leader – Giorgia Meloni e Matteo Salvini – sono parlamentari di lungo corso. Lo erano anche quando erano ministri. Non sono mai stati “no logo”, anzi: non hanno mai cambiato logo.
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