In soccorso di Giuseppe Conte – ritrovatosi un po’ solo a “distendersi” subito ai piedi dei talebani di Kabul – è giunto rapidamente Romano Prodi: sullo stesso column del Messaggero in cui – nell’agosto di due anni fa – aveva lanciato il “governo Orsola”. Un esecutivo nato allora – non senza significato – nel nome di una donna: la prima alla guida della Commissione Ue. Una cristiana alla quale la storica maggioranza “democratica” a Strasburgo e Bruxelles (socialisti, liberali, popolari) ha affidato nel 2019 la “resistenza” alle forze (supposte) “antidemocratiche” in Europa (dalla Lega italiana al leader ungherese Viktor Orban).
A Ursula von der Leyen, soprattutto, è stata messa in mano la grande agenda NextGenerationEu, divenuta ora Recovery Fund dopo l’uragano-Covid. Nei fatti un anticipo di un terzo trattato Ue dopo Roma e Maastricht: e il consolidamento della civiltà democratica inclusiva, piena di ogni diritto umano, è rimasto il piedistallo politico-culturale dell’Europa “che volevamo, vogliamo e continuiamo a volere” dopo più di sessant’anni.
Su Conte, per la verità, qualche dubbio di agenda è sorto fin dal primo giorno di una fulminea reincarnazione giallorossa come leader europeista: ciò che sicuramente non era stato come Premier gialloverde. Ma i dubbi si sono via via trasformati in certezza: fino all’ultimo (forse unico) discorso politico fatto da Conte Secondo, al di là delle “casalinate” a reti unificate. Nel gennaio scorso, a fiducia parlamentare ormai perduta, l’allora Premier ha detto davanti al Senato che il ruolo internazionale dell’Italia giallorossa avrebbe puntato a “un‘utile azione di raccordo fra i principali attori internazionali, a partire naturalmente dagli Stati Uniti, che sono il nostro principale alleato, il nostro fondamentale partner strategico, ma anche dalla Cina”. A ridurre in cenere l’improvvisato tentativo di riposizionamento “non allineato” del Paese (membro storico della Ue e della Nato) da parte di un Premier non eletto e neppure iscritto a M5S, sono bastate due ore di tweet. Tanto che Conte, ventiquattr’ore dopo, è stato costretto a cancellare il passaggio dalla rilettura del discorso alla Camera: quando peraltro il Parlamento aveva già deciso il suo licenziamento e il capo dello Stato l’incarico a Mario Draghi.
Più sorprendente – ma forse solo a prima vista – è stato l’outing “talebano” di Prodi: due volte Premier italiano come leader cristiano-democratico (anzi: “cattolico adulto”, apertissimo a tutte le “nuove libertà civili” inventate a getto continuo dal “politically correct” globalista); e Presidente della Commissione Ue, non da ultimo vicino al big business Usa (il Premier delle grandi privatizzazioni italiane è stato fra l’altro international advisor della Goldman Sachs). Certamente da anni – come molti altri leader Ue del passato recente – Prodi si è trasformato in lobbista internazionale. E se il socialdemocratico tedesco Schroeder si è messo al servizio energetico della Russia di Vladimir Putin, Prodi è diventato un ambasciatore onorario della Cina di Xi Jinping (prova ultima è stato lo sbarco della Faw nella “motor valley” emiliana, in scia alle scorribande “umanitarie” cinesi nella pianura padana spazzata dalla pandemia). E proprio la Cina, più ancora della Russia, sta trovando nella “dottrina Biden” in Afghanistan un insperato spazio controffensivo: verso il quale solo il premier euro-italiano Draghi sta reagendo con prontezza realistica: in aderenza stretta agli interessi dell’Italia nell’Ue e lontanissimo da ogni para-ideologismo d’accatto.
Prodi non si ritrova comunque da solo come power broker di Pechino in Italia. Massimo D’Alema – suo successore diretto a palazzo Chigi a fine anni ’90, Premier italiano ai tempi della “guerra umanitaria” condotta in Kosovo dalla Nato “amerikana”- è da tempo un altro solido punto di riferimento di Pechino in Italia. E il suo silenzio odierno suona come assenso di Leu (la formazione neo-comunista che ha sostenuto il ribaltone e il Conte-2) alla linea “responsabile” dell’ex maggioranza giallorossa verso la restaurazione della dittatura islamica in Afghanistan. Sarebbe peraltro disonesto non ricordare che il promettente giovane funzionario del Pci frequentava le scuole di partito a Mosca e Pechino già molto prima della caduta del Muro. Sarebbe ingiusto ignorare quanto l’anti-americanismo costitutivo del “primo – e unico – premier comunista in Italia” si sia lungamente nutrito di castrismo e guevarismo: cioè dei più profondi “spirits” anti-occidentali endemici da cinque secoli nell’intera America Latina. Più brutalmente: lo stesso realismo leninista che ha spinto il Premier D’Alema a dare totale appoggio politico alla “madre di tutte le Opa”, congegnata a Wall Street su Telecom nel 1999 potrebbe tranquillamente suggerire a Prodi e D’Alema di aprire a investimenti cinesi il capitale di Tim, Eni o Enel. Naturalmente a patto che poi dirottino una parte delle risorse-Pnrr nello sviluppo “umanitario” della digitalizzazione o dell’eco-sostenibilità nell’Afghanistan talebano.
Gli italiani preferiscono il Governo Draghi o vogliono il ritorno della “maggioranza Orsola”, che getta la maschera nel momento in cui indossa il burqa? La prima risposta verrà dagli elettori suppletivi di due circoscrizioni parlamentari di Siena e Roma. E da quelli che dovranno scegliere i sindaci di Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli.
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