Gli impeachement di Donald Trump, Bibi Netanyahu, Matteo Salvini e Matteo Renzi – maturati quasi contemporaneamente – presentano similitudini e diversità nel merito delle vicende che li hanno provocati e nelle forme procedurali.
Il presidente americano è stato messo in stato d’accusa dal suo Parlamento (per ora soltanto dalla Camera dei Rappresentanti) per l’ipotesi di abuso di potere a fini politici nell’Ukrainagate (avrebbe esercitato pressioni sul neo-presidente Volodymyr Zelensky perché promuovesse un’indagine sugli interessi a Kiev di Joe Biden, ex vicepresidente democratico di Barack Obama e candidato alle presidenziali 2020).
Un capo d’imputazione sostanzialmente analogo è stato sollevato contro l’ex vicepremier italiano: indagato per sequestro di persona nel caso della nave Gregoretti, peraltro su iniziativa della magistratura, in Italia costituzionalmente indipendente.
Il premier israeliano è finito invece nel mirino del procuratore generale con l’accusa di corruzione, frode e abuso di potere: avrebbe ottenuto finanziamenti e appoggi mediatici da importanti uomini d’affari in cambio di favori legati all’attività del governo. A Gerusalemme l’Attorney general è – come in molti altri Paesi – una figura del potere esecutivo, strutturalmente sensibile all’evoluzione politica. Fa parte del ministero della Giustizia, anche se fra i suoi diritti-doveri (peraltro non codificati da alcuna legge) vi sono “la promozione della pubblica accusa” e la “rappresentanza del pubblico interesse in ogni ambito legale” presso la magistratura giudicante.
L’ex premier italiano, infine, non è formalmente indagato dalla Procura di Firenze nel fascicolo contro la Fondazione Open (per finanziamento illecito della politica, riciclaggio e traffico di influenze), ma al centro vi sono i suoi più stretti collaboratori e vicende che riguardano direttamente il suo impegno politico e la sua vita privata.
I quattro casi – di cui si stanno occupando istituti e regole processuali di tre paesi di solide tradizioni democratiche – mostrano comunque un denominatore comune oggettivo: tutti gli impeachment hanno preso forma nel corso di complesse escalation delle rispettive arene politiche nazionali.
Trump è appena entrato nell’anno finale del suo mandato presidenziale e si accinge ad affrontare la campagna elettorale per la rielezione, con più di una chance. Intanto Salvini è in Italia più che uno shadow premier: l’esito dell’ultimo voto europeo e i sondaggi continuano a dire che, se in Italia si tenessero elezioni oggi, sarebbe con ogni probabilità il leader della Lega il premier di una coalizione di centrodestra. Ma in occasione della recente crisi di governo le elezioni anticipate sono state negate dal Presidente della Repubblica (garante costituzionale anche dell’ordine giudiziario), che invece ha reincaricato un premier mai democraticamente eletto in Parlamento, a capo di una maggioranza “ribaltonista” subito entrata in crisi di tenuta.
E chi ha subito minato la credibilità dell’esecutivo giallo-rosso è stato Renzi: che ha promosso la scissione di Italia Viva dal Pd.
Non certo da ultimo, Netanyahu è al centro di un’impasse senza precedenti in Israele: due elezioni politiche nell’arco di cinque mesi non sono state sufficienti a decretare un vincitore fra il Likud del premier in carica da dieci anni e il partito sfidante “Blu e Bianco”. Il Paese si avvia così verso un nuovo voto anticipato, con il premier in prorogatio.
Certamente fra Trump, Netanyahu e Salvini non è fuori luogo osservare consonanze di natura più squisitamente politica. Le categorie classiche li collocano “a destra”, ma è forse più appropriato associare i tre – in via più aggiornata – a una sensibilità “sovranista”, di ampia opposizione politico-culturale al ruolo egemonico assunto dalle élites global-finanziarie e politically correct. Tutti e tre, non a caso, hanno sperimentato relazioni strutturalmente difficili con la stagionata Europa tecnocratica, egemonizzata dalla Germania; e hanno per questo salutato con soddisfazione la netta vittoria di Boris Johnson in Gran Bretagna (le autorità religiose dell’ebraismo britannico hanno apertamente contrastato come “antisemita” il leader del Labour Jeremy Corbyn, che ha incassato per il suo partito la peggior sconfitta elettorale negli ultimi ottant’anni).
“Donald”, “Bibi” e “Matteo” sono finiti tutti nell’occhio di ripetuti cicloni politico-mediatici sul terreno dei flussi migratori. Al Muro di Trump alla frontiera messicana è corrisposto il blocco navale di Salvini nel canale di Sicilia. Più articolato il caso israeliano: dove il richiamo dell’immigrazione ebraica dai paesi dell’Est europeo (caratterizzata da forti venature nazional-religiose) ha spostato verso destra gli equilibri politici nazionali e radicalmente riorientato l’approccio politico, diplomatico e militare nella regione. Il Muro costruito da Israele al confine con la Cisgiordania ha già quasi vent’anni, mentre la colonizzazione dei Territori palestinesi non ha mai perso slancio. Solo negli ultimi due anni, tuttavia, Netanyahu è andato in escalation con le dichiarazioni unilaterali di Gerusalemme capitale e di sovranità sulle Alture del Golan e il preannuncio della volontà di annettere definitivamente la West Bank. Tutte svolte apertamente sostenute dalla Casa Bianca di Trump.
Nel frattempo Renzi – ex premier italiano di centrosinistra – sta facendo di tutto per confermare il suo veloce allontanamento da format politici invecchiati. In questo suo gioco a tutto campo, fra l’altro, Renzi non sembra più escludere neppure possibili combinazioni con la stessa Lega di Salvini: addirittura nel potenziale sostegno a un governo di coalizione guidato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi (a sua volta in visibile distacco dagli approcci tecnocratici più rigidi e per questo oggetto di veri e propri “attacchi d’odio” da parte delle élites tedesche, francesi, olandesi, austriache).
P.S. Visto dall’Italia appare curioso che il presidente americano messo in stato d’accusa per sospette pressioni anomale sul capo di Stato ucraino, sia lo stesso che ha apertamente appoggiato il reincarico al premier italiano, a sua volta oggetto di richieste – se non di pressioni – da parte dell’amministrazione americana sostanzialmente analoghe a quelle rivolte al presidente ucraino.