C’è nel Paese una “comunicazione pubblica troppo spesso condizionata da fattori demagogici” che “finiscono per sconcertare l’opinione pubblica”.
A sottolinearlo è il procuratore generale della Corte dei conti, Alberto Avoli. “Migliaia di twitter assordano ogni giorno le nostre giornate: quasi sempre non con il gradevole canto dell’usignolo, ma con il fastidioso rumore delle mosche nella calura dei pomeriggi estivi”, afferma nel suo discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Avoli punta il dito su “centinaia di dibattiti dove tutti si parlano addosso in un vero delirio di narcisistica autoreferenzialità e dove la capacità di ascolto viene annullata dalla sovrapposizione confusa delle voci. Le diagnosi sono oramai sempre più precise e spesso persino condivise. Sulle azioni terapeutiche si registra purtroppo ancora molta confusione, forse troppa”.
Il lancio d’agenzia – non avrebbe torto il dottor Avoli nel sottolinearlo – è stato “estrapolato” da una relazione di 14 pagine letta ieri mattina alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tuttavia è stato questo il messaggio rimbalzato in tempo reale nei circuiti mediatici: assai più delle pur puntuali osservazioni del procuratore generale sull’attività inquirente della Corte.
Quest’ultima è una magistratura speciale amministrativa, di rilievo costituzionale. Le sue funzioni sono dichiarate dall’articolo 100 della Carta repubblicana: “La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito”.
Non c’è traccia, nel dettato costituzionale, di responsabilità di “controllo preventivo e successivo” della Corte dei conti sul linguaggio dei politici: degli italiani democraticamente eletti dagli altri italiani per esercitare in via esclusiva e sovrana il potere legislativo ed esecutivo.
Sono semmai questi politici – stante l’indipendenza di ogni magistratura nei limiti posti dalla Costituzione – ad avere eventualmente la responsabilità di “controllare” anche la magistratura contabile: di valutare il suo funzionamento nel compito esclusivo di vigilare sui “conti finanziari” dello Stato, cioè un’emergenza permanente e cruciale nell’Italia odierna. Questo e solo questo dovrebbe fare ogni giorno, ogni anno la Corte dei conti: contribuire a rendere al massimo efficiente ed efficace l’utilizzo di tutte le risorse pubbliche, correnti e patrimoniali, gestite dall’amministrazione centrale o da quelle locali. La Corte non ha invece alcun titolo per esprimere giudizi sui linguaggi della vita democratica nazionale: quello che dicono elettori ed eletti in Parlamento e come lo dicono.
E’ un diritto – quello di giudicare i “linguaggi” degli italiani – che in Italia non ha e non può avere nessuno: al di là della magistratura ordinaria nei casi previsti dalla legislazione penale.
L’articolo 21 della Costituzione – mai modificato dal 1° gennaio 1948 – non è equivocabile. E’ una disposizione che la democrazia costituzionale consente naturalmente di cambiare (le procedure sono disciplinate dall’articolo 138). Magari con un “codice del linguaggio pubblico” recentemente oggetto di ballon d’essai mediatico sulla scia della cosiddetta “commissione Segre”. Ma è una decisione che può assumere soltanto il Parlamento repubblicano: non altri, non certamente un magistrato. Quest’ultimo serve lo Stato applicando le leggi approvate dal Parlamento. Il suo linguaggio può essere soltanto quello dei codici legali propri dell’esercizio delle sue funzioni. Non può mai essere il linguaggio della politica.
Se e quando avviene, la legalità democratica è a serio rischio.