Secondo giorno di votazioni: ordini di scuderia, votare scheda bianca, in attesa che si concludano le trattative in corso in tutti i gruppi. Al mattino resta alto il diritto di veto del Pd, che non vuole nessun candidato che appartenga all’area del centrodestra. Nessuno, per principio, anche se tra i nomi fatti ci sono persone equilibrate, con esperienza istituzionale, aperte e dialoganti. Per Enrico Letta il centrodestra è off limits; una sorta di muro virtuale lo pone al di là delle scelte possibili e poco importa chi stia dall’altra parte. Per lui l’unico nome spendibile è quello di Draghi, a suo avviso super partes, ma, grazie a questa operazione, decisamente arruolato dal lato sinistro della barricata.
Il presidente del Consiglio è stato chiamato a Palazzo Chigi per gestire tre tipi di crisi: quella economica, quella sanitaria e quella politica. Una missione per cui riceve ogni giorno di più apprezzamenti e conferme non solo dalla sua ampia maggioranza, ma anche dai colleghi in Europa e nel mondo intero, per la qualità del lavoro svolto e soprattutto per il lavoro che resta ancora da fare. Che Draghi sia una risorsa nessuno lo nega; ma che in questo momento lo sia più a Palazzo Chigi che non al Quirinale è la tesi da dimostrare.
In realtà a deputati e senatori appare sempre più chiaro lo scenario che potrebbe aprirsi se l’attuale presidente del Consiglio si spostasse al Colle: crisi nell’esecutivo, soprattutto tra tecnici e politici; ulteriore indebolimento della pur labile coesione tra i partiti della maggioranza; rischio di andare ad elezioni anticipate.
Tra i meriti di Mario Draghi, oltre all’indubbia competenza tecnica, c’è la sua statura morale di uomo integerrimo nella difesa degli interessi del Paese. Abbandonare il governo che gli è stato affidato in virtù dei suoi meriti e in condizioni di permanente criticità, per migrare verso un ruolo ancor più prestigioso, come quello di presidente della Repubblica, diverso però da quello per cui è stato chiamato, aprirebbe un vulnus nel suo curriculum. Potrebbe far temere ad un potenziale conflitto di interessi, e Draghi non potrebbe che allontanare con energia anche il semplice sospetto di una tale interpretazione. Di fatto il centrodestra è contrario al suo spostamento al Colle e Conte è convintamente d’accordo con questo approccio.
Trascuriamo il balletto della terna del centrodestra – Nordio, Moratti, Pera – salutata come un passo avanti dalla sinistra e poi respinta. Dalle parti del Pd e di M5s, ce non presenteranno a loro volta un tris di nomi, si continuano a cullare tre personaggi a questo punto difficilmente proponibili: Riccardi, Belloni, Grasso. Ci sono altre personalità che restano coperte: Casellati, Casini, Amato. Le loro “azioni” potrebbero salire nelle prossime 48 ore.
Ma la più vistosa ipocrisia del dibattito in questi giorni è quella di voler escludere un candidato che sia di parte, il che esclude per definizione non solo i leader politici, ma ogni parlamentare, eletto solo e perché inserito in qualche lista elettorale. Sembra che essere di parte, nel senso di eletto da una parte, impedisca di essere super partes, perché il senso civico, la maturità istituzionale, l’etica personale e pubblica, non sarebbero sufficienti a garantire l’obiettività delle scelte e delle decisioni. Ancora una volta si tenta di estromettere la politica.
Merita un cenno il “conclave” a pane e acqua invocato da Letta per raggiungere con le buone o con le cattive un accordo definitivo. Un paragone di sapore clericale del tutto fuori luogo. Dubitiamo che il conclave patrocinato dal Pd, per quanto aperto alla destra, sarebbe assistito dallo Spirito Santo.
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