La retorica permanente sulla povertà dilagante, che domina i commenti sui mass media e le prese di posizione dei politici di ogni colore, rappresenta il sintomo di una deriva del nostro Paese che dovrebbe preoccupare ogni persona di buon senso. Un conto è il dovere di farsi carico delle persone fragili, altro è utilizzare l’argomento come pretesto per teorizzare l’assistenza permanente di milioni di persone, attraverso un’ipertrofica erogazione di sussidi a carico della collettività.
L’effetto della pandemia ha certamente messo in seria difficoltà diversi comparti produttivi e il reddito di milioni di persone. Salvare le aziende e offrire dei sussidi ai lavoratori che rischiano di perdere il lavoro, o impossibilitati a trovarlo, è del tutto ragionevole. Ma tutto questo, nonostante la vulgata che afferma il contrario, ha poco a che fare con la povertà. Che in molti casi è aumentata proprio perché i provvedimenti pubblici, adottati per la dichiarata finalità di aiutare le persone le famiglie in difficoltà, sono andati in altra direzione.
Eppure alcuni dati, che sono disponibili per tutti coloro che vogliono esaminare seriamente il tema, dovrebbero far riflettere. Nel corso della pandemia, il risparmio nei conti correnti delle imprese e delle famiglie è aumentato di circa 180 miliardi di euro. Più dell’importo degli aiuti erogati dallo Stato e delle perdite registrate sul Pil. Per la parte delle famiglie questo aumento ha riguardato il 55% dei conti correnti. Circa 33 milioni di salariati, stipendiati e pensioni non hanno subito alcuna perdita di reddito. E questo vale anche per un terzo delle attività produttive che non hanno subito riduzioni di attività o addirittura hanno incrementato il loro fatturato durante la pandemia. Una quota di questi ha potuto persino beneficiare di sussidi, moratorie fiscali e garanzie sui prestiti a carico dello Stato senza averne effettivamente bisogno.
Certo, tutto questo è dovuto principalmente alla crescita del risparmio conseguente alla riduzione forzosa dei consumi, e al rinvio degli investimenti da parte delle imprese in attesa di tempi migliori. Ma restano in ogni caso delle risorse aggiuntive a loro disposizione.
Un’altra quota di lavoratori, circa 7 milioni di dipendenti e 4 milioni di quelli autonomi, ha subito una parziale riduzione del reddito. Per una parte ulteriore di questi, circa 2 milioni, le perdite sono state consistenti per via delle mancate assunzioni, o per il fermo pressoché totale delle attività. Per i lavoratori autonomi, in molti casi, il sostegno dello Stato si è rivelato al di sotto delle aspettative perché rapportato alle dichiarazioni fiscali precedenti alla crisi Covid. Ma gli effetti sull’impoverimento del reddito non vanno affatto confusi con quelli della crescita della povertà. Almeno di quella rilevata con gli indicatori utilizzati dagli istituti di statistica nazionali (i nuclei familiari con reddito inferiore al 40% di quello mediano).
La confusione va evitata per due principali motivi: perché nei nuclei familiari confluiscono i redditi di diversa natura, dipendenti pubblici e privati, autonomi, rendite da affitti o sui risparmi investiti, eredità; perché il patrimonio finanziario accumulato in precedenza ha consentito a molte famiglie di fronteggiare la congiuntura negativa.
È ragionevole ritenere che per una fascia dei nuclei familiari meno abbienti, quelli che hanno perso l’unico reddito disponibile o la possibilità di incrementarlo con altre prestazioni nel corso della crisi Covid, l’impoverimento abbia raggiunto la soglia descritta. Ma buona parte dell’aumento della povertà reale nel corso della pandemia non va relazionata alla perdita degli introiti economici, ma a quella della drastica riduzione dei servizi rivolti alle persone (collaborazioni domestiche e badanti, mense scolastiche, servizi a domicilio per i non autosufficienti, riduzione dei sostegni tra familiari). Solo in parte compensata dai provvedimenti di sostegno messi in campo durante la crisi.
Per contrastare tale rischio sono stati spesi circa 14 miliardi per il reddito di cittadinanza, e per quello di emergenza che è stato aggiunto per allargare la platea dei beneficiari. Strumenti che hanno erogato sussidi a 4,5 milioni di persone appartenenti a 2,1 milioni di nuclei familiari. Nonostante ciò, secondo l’Istat, nel corso del 2020 le persone in condizioni di povertà assoluta sono aumentate da 4,6 a 5,6 milioni.
In un recente articolo ho cercato di documentare le ragioni del divario, dovute alle storture dei provvedimenti che favoriscono le dichiarazioni Isee fasulle, penalizzano le famiglie numerose, i minori e gli immigrati, cioè quelle che l’Istituto di statistica ritiene le più esposte al rischio di povertà. Nonostante queste evidenze il nostro personale politico continua a ritenere positivi questi strumenti e a rifinanziarli con un’ulteriore iniezione di nuovi miliardi di euro.
Tutto questo non è una novità, ma la naturale evoluzione della crescita dei livelli della spesa pubblica dedicata all’assistenza (da 74 a 114 miliardi tra il 2008 e il 2019) ottenendo il paradossale esito di raddoppiare il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta.
Mi annovero da tempo al numero (scarso) degli analisti e dei commentatori che ritengono che il principale problema della nostra comunità nazionale non sia affatto la carenza di risorse, ma l’utilizzo che ne viene fatto nella direzione di alimentare i comportamenti parassitari di milioni di persone che, a vario titolo (evasori, beneficiari indebiti di sostegni pubblici o di pensioni e assegni sociali senza aver pagato i contributi, persone che ritengono il lavoro manuale come una cosa buona solo per gli immigrati…) tendono a dichiararsi povere, o in procinto di andare in rovina. Un malcostume finalizzato ad alzare il tiro delle rivendicazioni corporative, e utilizzato per finalità di consenso dalle rappresentanze politiche per erogare sussidi, bonus moratorie di ogni genere, e persino per i condoni delle multe e delle tasse non pagate prima del 2010. L’utilizzo degli indicatori Isee autocertificati dai richiedenti (stima del reddito e del patrimonio familiare sulla base dei criteri previsti dalla legge) è diventato una sorta di mantra utilizzato per giustificare gli interventi in nome della redistribuzione del reddito, nonostante nelle indagini a campione effettuate dalla Guardia di finanza siano risultati non conformi per il 70% dei casi analizzati.
Indicativo il fatto che nel corso della pandemia siano stati esentati dal vincolo di accettare le offerte di lavoro tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza e nel contempo sia stata messa in opera una fallimentare sanatoria per trovare immigrati per le raccolte stagionali agricoli. Da circa un anno i Governi stanno erogando bonus mensili per coloro che hanno svolto il lavoro stagionale nel 2019, ma le associazioni datoriali del turismo lanciano in questi giorni l’allarme per la difficoltà di trovare manodopera in vista della ripresa delle attività. Ma in generale questo è l’andazzo che caratterizza il mercato del lavoro italiano, quello con il minor tasso di occupazione in Europa.
Ma l’attuale ministro del Lavoro, in piena coerenza con quelli che l’hanno preceduto, ha indicato la strada giusta per affrontare questi problemi: aumentare la quota dei sussidi al reddito e prepensionare i lavoratori. E a breve non ci farà mancare la richiesta di far entrare in Italia qualche centinaia di migliaia di nuovi immigrati per svolgere i lavori che non vogliono fare gli italiani.
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