Su un punto siamo tutti d’accordo: il più grande sostegno alla ripresa economica verrà dal successo della campagna vaccinale. Prima e meglio adempiremo a questo compito, meglio e prima potremo riaprire e rilanciare le attività che oggi soffrono per le chiusure precauzionali. Non sarà un ritorno alla situazione ante pandemia ma una vera e propria ripartenza.
E qui si pone la grande domanda: come si presenteranno al via le imprese italiane? Le informazioni di cui disponiamo destano non poche preoccupazioni. L’effetto anestetizzante degli aiuti statali e del conseguente blocco dei licenziamenti prima o poi scomparirà. E dovremo fare i conti con una realtà che si presenta molto cruda: sul campo resteranno morti e feriti.
Un rapporto congiunto di Mediocredito centrale e Svimez informa che crescono a dismisura le imprese zombie. Le imprese, cioè, che si presentano già decotte e sono inevitabilmente destinate a saltare. Di quelle osservate, sono ben 84mila a trovarsi in queste condizioni. Molte tra queste erano in difficoltà già prima del Covid. Altre se ne sono aggiunte nel frattempo.
Si prepara, potremmo dire, una bomba sociale. Tolti i sostegni, una parte non marginale dell’impalcatura imprenditoriale del Paese potrebbe crollare. Bisogna correre ai ripari. E immaginare come intervenire per attutire quanto più possibile il colpo già sapendo che non tutto si potrà salvare. Si pone il problema di una scelta: chi mantenere in vita e perché?
La risposta più ovvia – occorre salvaguardare le aziende meritevoli e mollare le altre – non risolve il dilemma. Chi decide chi merita di superare la nottata e chi no? Se la selezione non è rimessa alla brutale equità del mercato – i forti sopravvivono, i deboli crepano – ma a una decisione pubblica c’è il rischio di commettere ingiustizie con l’aggravante della buona fede.
La più accentuata presenza dello Stato nell’economia – dovuta in particolare ai finanziamenti garantiti e agevolati al mondo della produzione e dei servizi – se da una parte appare quasi necessaria, dall’altra minaccia di essere foriera di nuovi squilibri. Soprattutto se dovesse passare il principio di premiare alcuni settori ritenuti vincenti a discapito di altri.
L’innovazione, la digitalizzazione, la transizione green e tutte le mutazioni positive che dovrebbero traghettarci verso il futuro, sono un affare delle singole imprese – e dell’abilità di chi le conduce – a prescindere dal contesto in cui si opera. Anche chi vive nella tradizione può avere guizzi d’intelligenza e intuizioni che possano proiettarlo negli anni a venire.
Bisogna poi fare i conti con la disperata ostinazione con la quale in Italia si tende a conservare l’esistente. È come se da noi la salvifica regola della distruzione creatrice non abbia mai attecchito. I lavoratori tendono a conservare il posto che hanno anche in aziende tecnicamente fallite e queste tendono ad aggrapparsi a tutte le stampelle possibili per non cadere.
Con il risultato, ancora una volta, che le risorse non siano indirizzate dove sarebbe meglio per la tenuta generale del sistema. Così compromettendo anche il livello generale della produttività e della capacità competitiva che sono invece indispensabili per garantire l’unico rimedio alla sostenibilità del debito che intanto aumenta: una crescita robusta.
Come si vede, l’uscita da questa sorta di sospensione dalla vita reale in cui siamo immersi sarà più difficile del previsto. La forte accelerazione di fenomeni già in atto, ma a una velocità che ci pareva controllabile, impone un repentino sforzo di adattamento – mentale, tecnologico, organizzativo – senza il quale la grande occasione del Next Generation Eu sarà persa.
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