Magistrati, tecnocrati della banca centrale, giornalisti ed editori. Quanti “chierici” in crisi nell’Italia di mezzo, fra governo del Paese e lotta politica, fra Stato degli interessi pubblici e legittimi e mercato degli interessi privati e opachi. Sull’impasse senza precedenti del Consiglio superiore della magistratura è quasi impossibile aggiungere fatti o riflessioni. I primi li hanno forniti i magistrati stessi, in un autodafé clamoroso – ma non del tutto incredibile – a un quarto di secolo dalla stagione di Mani Pulite. La riflessione – alla fine una sola: “Si volti pagina”  – l’ha compiuta venerdì per tutti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presiedendo il Csm: cosa che nessun Capo dello Stato vorrebbe mai essere chiamato a fare, se non in poche sedute rituali.



Pur essendo indicato dalla Costituzione come il presidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, l’inquilino del Quirinale “regna” sull’ordine giudiziario (e ne garantisce il funzionamento istituzionale), ma non lo “governa” affatto, rispettando al massimo l’autonomia di Pm e giudici. Fino al punto – è stato il caso di Mattarella – di subirne un (ingiusto) danno istituzionale, quando i magistrati stessi hanno portato all’esterno le vicende “sconcertanti” delle ultime settimane: poste formalmente sotto l’alta sorveglianza della Presidenza.



Chi cerca con ossessione quotidiana cosiddetti “nemici della democrazia” – e spesso i cacciatori sono magistrati o costituzionalisti e le prede governi o forze politiche sgraditi a magistrati collusi con la politica – qualche domanda farebbe bene a porsela. Ma la vicenda del Csm italiano – e il suo dipanarsi politico-mediatico – sembrano cibo indigesto anche per un’altra ossessione corrente, a livello globale: la cosiddetta lotta alla fake news.

Ancora una volta la vita pubblica italiana è stata scossa e orientata (“corretta” avrebbe detto un noto ex magistrato trasferitosi senza successo in politica) da un flusso di intercettazioni giudiziarie, giunte ancora una volta in tempo reale ai media (ancora una volta illegalmente). Da un lato l’Italia spicca ancora per la sua peculiare e paradossale “trasparenza”. Si è mai letta su un giornale francese una (vera) intercettazione dell’inquilino dell’Eliseo, di un alto magistrato, di un grande banchiere? Perfino nel roventissimo Russiagate in corso negli Usa del Primo emendamento è impossibile leggere una riga intercettata di Trump: e la stampa liberal che cacciò Nixon grazie a Gola Profonda (un alto funzionario dell’Fbi, in lotta per il proprio potere…) oggi è tutt’altro che schierata con le Grandi Orecchie della Silicon Valley. Ha anzi voltato le spalle sia al Grande “laeker” Assange (killer mediatico di Hillary Clinton),  sia  al Grande esiliato Snowden, ospite del Grande Troll Putin. Questo notato, il caso del Csm italiano sembra costituire un meltdown difficilmente superabile: magistrati che ingaggiano guerre di potere contro altri magistrati, aprendo con parecchia evidenza inchieste giudiziarie “interne” ad hoc e a orologeria, con il fine specifico di creare un flusso di intercettazioni da pilotare subito sui media. Senza contare che il trojan utilizzato assicura un controllo 24X7 sulla vita dell’indagato (a sua insaputa).



Il cerchio sembra in ogni caso chiudersi rispetto all’inizio di questa stagione. Nell’estate del 2005 infuriava già da mesi la guerra delle Opa su Antonveneta, Bnl e Rcs con l’iniziale affermazione del fronte “proto-sovranista” pilotato dal governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. L’utilizzo della nuova normativa europea sul market abuse, appena recepita in Italia, consentì alla Procura di Milano di aprire a tamburo battente un’indagine penale, le cui prime intercettazioni giunsero ai giornali nell’arco di settimane dall’entrata in vigore della norma che ridefiniva il reato. Il flusso (a senso unico contro il “fronte Fazio) dilagò per l’intera estate e gli esiti sono noti: AntonVeneta finì prima ad Abn Amro e poi ricomprata da Mps, successivamente andato in dissesto a salvato a prezzo di 5 miliardi dei contribuenti. Bnl fu comprata dal gigante francese BnpParibas. Fazio fu cacciato dalla Banca d’Italia, processato e inizialmente condannato per “cattiva vigilanza”, poco prima che le grandi banche mondiali – fra cui Abn Amro – inanellassero una drammatica catena  di fallimenti.

In via Nazionale arrivò Mario Draghi, cui – dopo la promozione al vertice Bce – subentrò Ignazio Visco. Alla promessa di una vigilanza bancaria “ripulita” seguì in Italia una paurosa serie di dissesti. Su questi il rubinetto delle intercettazioni, tuttavia, si inaridì: salvo forse quelle che decretarono l’allontanamento dal vertice UniCredit di Fabrizio Palenzona, completamente scagionato giusto in questi giorni. Ma ancora UniCredit fu al centro di una paradossale anti-intercettazione: l’indiscrezione – riportata addirittura in un libro – dall’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, riguardo le (presunte) pressioni dell’allora ministro Maria Elena Boschi per il salvataggio di Banca Etruria, di cui il padre era vicepresidente. 

Nell’ultimo fine settimana, peraltro, sembra essersi chiusa anche la stagione più tormentata per la vigilanza Bankitalia. Dopo la faticosa riconferma a vicedirettore generale di Luigi Federico Signorini (già capo della vigilanza), è stato giubilato Carmelo Barbagallo, il responsabile della vigilanza nazionale dal maggio 2011. Gli è stato concesso l’onore delle armi con la promozione a funzionario generale come “alto consulente del Direttorio” e con la chiamata a nuovo responsabile del suo numero due, Paolo Angelini. Ma il passaggio è in ogni caso più che simbolico. Poche settimane fa Bankitalia aveva registrato le dimissioni del direttore generale Salvatore Rossi, la promozione di Fabio Panetta (finora membro italiano del consiglio di sorveglianza Bce) e l’esclusione dei dirigenti interni dalle nuove nomine in direttorio. Il rischio di una commissione d’inchiesta-bis sulla crisi bancaria non è ancora scongiurato e le esigenze del riassetto interno (Carige e Popolare Bari) e internazionale (UniCredit) hanno imposto di “voltar pagina” anche a palazzo Koch.

Ma la campana di un cambiamento – peraltro non ancora definito negli indirizzi – suona in questi giorni anche per i giornalisti. La crisi conclamata dell’Inpgi – l’ente pensionistico gestito in autonomia da editori e giornalisti – è innestata direttamente su alcuni nodi strutturali della transizione italiana. La media industry italiana ha affrontato tardi e male – in molti casi per  nulla – la sfide che la digitalizzazione globale ha portato frontalmente da almeno due decenni  a chi produce e vende notizie. Editori e giornalisti si sono trovati d’accordo quasi soltanto nello scaricare sul loro ente previdenziale i costi crescenti delle loro scelte e della conseguente perdita di competitività.

Ondate massicce di prepensionamenti, non meno che l’utilizzo indiscriminato dell’Inpgi come ammortizzatore sociale hanno avuto come riscontro la caduta verticale dei contribuenti Inpgi. I grandi editori (pressoché tutti i potentati finanziari italiani) hanno investito poco o nulla sui loro gruppi, resistendo peraltro con tenacia nel controllo di strumenti di pressione politica e ignorando opportunità di vendita o aggregazione con editori professionali. E da quando il Governo è a guida Lega-M5S i cosiddetti “giornaloni” sono compatti nel contestare spesso la stessa legittimità della maggioranza.

Nel frattempo l’Inpgi si è ritrovata al centro di un braccio di ferro multiplo, forse non così lontano da quello che agita la magistratura. Da un lato una categoria giornalistica che si oppone con ogni accento a una maggioranza politica tacciata di “fascismo” invoca a gran voce aiuti pubblici, “democratici” alla “libertà di stampa”. L’ipotesi di lavoro – il passaggio forzato all’Inpgi di una categoria professionale come i comunicatori (degli enti pubblici) – si è presto rivelata impraticabile sul piano legale e politico: e con essa sembra essere naufragato l’estremo tentativo dell’Inpgi di rimanere autonomo. Ma anche sull’ipotesi (naturale) di commissariamento dell’ente – prodromica a una possibile confluenza nell’Inps – editori e giornalisti sembrano incerti e divisi. Alcuni vorrebbero “resistere-resistere-resistere”: e il decreto-crescita appena sfornato dal Governo, in effetti lascia all’Inpgi un periodo di tempo per tentare di curare da sé i propri squilibri. Ma non sono pochi neppure i giornalisti che preferirebbero un percorso definito come il commissariamento e la possibile ripubblicizzazione rispetto alle incognite di una “auto-cura da cavallo”, che forse non eviterebbe la ristrutturazione fra pochi anni. E che sarebbe in parte dettata da ragioni politiche, estranee alla tutela delle pensioni dei giornalisti di oggi e di domani.

Inpgi, Fnsi e Ordine dei giornalisti continuano nel frattempo a non aver dubbi: l’ipotesi di commissariamento è “un attacco alla categoria”. Mentre il Governo, nei fatti, è assolutamente alieno da ogni volontà o fretta di “attaccare”. Come per Radio Radicale, perché lo Stato dovrebbe essere obbligato ad aiutare gruppi privati, “senza se e senza ma”? 

L’autonomia – dei magistrati, degli editori privati e dei giornalisti loro dipendenti, delle authority indipendenti – in una democrazia è una cosa seria. E quando va in crisi è necessario “voltar pagina”.