La decisione della Procura di Milano di aprire un fascicolo penale sul caso Ilva – un “diritto-dovere”, secondo il procuratore capo Francesco Greco – spinge a una riflessione ennesima sull’interventismo (e sui persistenti indizi di collusione para-politica) del potere giudiziario in qualsiasi ambito della vita italiana. Ovunque prenda forma una vicenda sensibile – anzitutto per interessi particolari, politici o economici – i magistrati (anzitutto quelli penali) si siedono subito al tavolo: qualche volta su invito, qualche altra senza. E avocano immediatamente a sé il ruolo di arbitri di prima e di ultima parola, in nome della tutela di interessi sempre generalissimi e per questo spesso poco definibili: soprattutto se è in gioco l’esercizio dell’azione penale.
A Taranto “dobbiamo sorvegliare da vicino ambiente, economia e lavoro” ha fatto filtrare la Procura milanese. Che infatti ha iniziato a indagare “in generale” la crisi Ilva a mille chilometri di distanza (la Procura di Taranto ha dovuto frettolosamente accodarsi); ma senza indagare per ora nessun soggetto in particolare per specifiche ipotesi di reato. Salvo incassare in tempo reale il plauso del premier Giuseppe Conte: il quale, peraltro, guida il potere esecutivo ed è il primo chiamato dalla Costituzione a tutelare gli interessi pubblici in campo economico. Non da ultimo: i commissari Ilva sono parte in causa – presso il Tribunale di Milano – in un contenzioso civile contro ArcelorMittal.
Che democrazia è quella in cui il potere giudiziario vuole – o deve – governare direttamente non meglio definiti “interessi collettivi (nazionali…)”, a maggior ragione quando il potere esecutivo si dimostra e dichiara incapace di farlo? Che stato di diritto è quello in cui la magistratura (in Italia orgogliosamente indipendente e “terza”) strizza l’occhio al governo nazionale in carica (ma non a tutti i governi…) mentre dei pubblici ufficiali sono impegnati in una causa contro un investitore privato internazionale? Che giustizia è quella che lancia in corsa da Milano un’inchiesta penale su fatti in svolgimento a Taranto con la motivazione formale che ArcelorlMittal ha scelto il foro ambrosiano come competente per una causa contrattuale?
Prima di ringraziare affannosamente i magistrati per il loro “aiuto fraterno” (ma inevitabilmente interessato all’approdo della riforma della giustizia in cantiere…) il premier potrebbe, anzi dovrebbe fare molte cose. Mettere alla frusta l’Avvocatura dello Stato – gigantesca quanto costosa per i contribuenti – a fianco dei commissari Ilva al lavoro contro Arcelor nel contestare la rescissione di un contratto firmato da loro (senza cercare una frettolosa exit strategy via esposti penali su presunti “danni all’economia”). Poi Conte dovrebbe ordinare al ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli (M5S) di tenere sotto pressione Arcelor sul dossier “strategia & esuberi” e studiare ogni opzione di politica industriale. Dovrebbe sollecitare anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd) a esaminare ogni margine di manovra possibile per i fondi strategici di Cassa depositi e prestiti, in combinazioni proprietarie alternative. Ma infine e soprattutto: un premier non eletto ed espresso da M5S dovrebbe chiamare apertamente il leader pentastellato Luigi Di Maio (ministro degli Esteri) alla sua responsabilità politica nell’abolizione dello “scudo penale’ su Ilva, soltanto a fini elettorali e di equilibri interni al suo partito. (Conte non dovrebbe invece tirare per la giacca il Presidente della Repubblica, che nella Costituzione non ha competenze di governo. Il capo dell’esecutivo è Conte, non Sergio Mattarella. Se non è in grado di gestire da palazzo Chigi un caso come Ilva forse dovrebbe riflettere sul proprio ruolo e su quello del suo governo).
Tornando alla Procura di Milano, è forse possibile tralasciare la fase corrente di scarsa credibilità di un ordine giudiziario scosso e lacerato dal “caso Palamara” (anche l’altro giorno la designazione in Csm del nuovo Pg di Cassazione, Giovanni Salvi, è avvenuta a maggioranza, con voti favorevoli inferiori alla metà del plenum: ed era personalmente presente il presidente Mattarella). Più attenzione merita probabilmente il completo dietro-front maturato dagli inquirenti ambrosiani sul fronte cruciale del “sovranismo” politico-economico.
Ormai molti anni fa – il procuratore aggiunto per i reati finanziari era però lo stesso Greco – la Procura milanese recitò un ruolo estremamente esposto nell’estate delle Opa bancarie. Nel 2005 l’aspra contesa su Antonveneta fra il colosso olandese Abn Amro e la cordata italiana capitanata dalla Banca Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani e appoggiata dal governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ebbe un esito tempestivo ed “esemplare”. Fiorani finì in custodia cautelare e Fazio fu indagato, cacciato, infine processato. Ma il passaggio più simbolico fu probabilmente il sequestro in corsa chiesto e ottenuto dalla Procura al Gip di Milano per il pacchetto di maggioranza relativa di AntonVeneta, raccolto sul mercato dai contro-scalatori italiani. Quelle azioni furono infine formalmente consegnate dai magistrati milanese ad Abn Amro (con modalità poco differenti – presso lo studio di Guido Rossi – il controllo di Bnl fu assegnato alla francese Bnp Paribas, vanificando la contro-scalata degli immobiliaristi romani avversari del colosso spagnolo Bbva).
Si concludeva così una durissima resa dei conti fra il sovranismo bancario di Fazio e un vasto fronte di interessi “liberal-globalisti” italiani e internazionali (in prima fila le banche d’affari della City, ma anche l’Antitrust Ue retto dall’olandese Neelie Kroes, succeduta a Mario Monti). Tre anni dopo Abn Amro era già fallita e AntonVeneta era già stata nel frattempo “risputata” in Italia, creando le precondizioni del futuro dissesto di Mps. Nessuno si sorprese troppo né del primo, né del secondo esito. Nell’estate 2005 la Procura di Milano si mostrò comunque granitica nello schierarsi dalla parte degli investitori internazionali e contro gli orientamenti dell’authority nazionale delegata a vigilare sugli interessi del sistema bancario italiano. Aderendo al mantra ideologico allora egemone, i magistrati avallarono il pensiero unico e pregiudiziale in base al quale un’azienda italiana – in un settore strategico – sarebbe stata meglio gestita da un gruppo estero piuttosto che da una proprietà e un management domestici. “Mercati ed Europa” avevano ragione a prescindere su qualsiasi istanza “sovranista”: i primi andavano “lasciati fare” senza interferenze, le seconde andavano invece contrastate e represse.
Può darsi che ci sbagliamo, ma quattordici anni dopo Greco – nel frattempo divenuto procuratore capo di Milano – sta rivedendo a fondo e in fretta le sue idee di allora. E se l’Ilva verrà rinazionalizzata il cerchio si sarà richiuso non solo per l’acciaio di Stato e per un certo meridionalismo d’antan.
P.S.: L'”aria che tira” – direbbe un opinionista politicamente corretto come Fabio Fazio – si segnala anche in altre prese di posizione nei dintorni della Procura di Milano. Ieri ad esempio sul Corriere della Sera, il vicedirettore Federico Fubini dava risonanza a una “nuova idea” su Ilva: far intervenire la Cassa depositi e prestiti. Il senso di novità attribuito dal commentatore all’idea – in realtà sul tavolo da mesi, se non da anni – è però meno paradossale di quanto sembri. Fubini, infatti, è consolidato commentatore di stretta ortodossia liberalglobalista, per la quale ogni opzione d’intervento di uno Stato nazionale sul mercato è sempre stata eresia da rogo. La novità, dunque, è che anche Fubini sta evidentemente riconvertendo le sue posizioni: apparentemente abbandonando quelle di Mario Draghi, da pochi giorni past president della Bce, e avvicinandosi a quelle del ministro dell’Economia in carica, Roberto Gualtieri, ex direttore dell’Istituto Gramsci. Ma sul numero dell’inserto “Economia” oggi in edicola con lo stesso Corriere, anche l’ex direttore Ferruccio De Bortoli si produce in una riflessione non banale: sui “ricchi di famiglia”.
Le fortune dell’Italia “signorile” (secondo la fortunata prospettiva indicata da Luca Ricolfi) ammontano ad almeno 844 miliardi: tanto è gestito dal private banking nel Paese. “L’Italia potrebbe essere sempre di più destinataria degli investimenti dei suoi concittadini più affluenti che si spera anche che siano contribuenti congrui e fedeli”, sottolinea De Bortoli: non scorrettamente (a parte forse un po’ di lesta assimilazione di sapore grillino fra “ricchezza” ed “evasione”). Non è la prima volta che De Bortoli invita gli italiani a donare in qualche modo “l’oro alla patria”: nell’autunno 2011 invocò dalle colonne del Corriere la sottoscrizione “nazional-popolare” di Btp a beneficio del governo Monti nel pieno della crisi-spread. Tuttavia su quelle colonne – e su quelle di quasi tutti i grandi media nazionali nell’ultimo quarto di secolo – è sempre cantata una canzone molto diversa, anzi: opposta. Nella felice “fine della storia” della globalizzazione finanziaria, a ciascun abitante del pianeta veniva riconosciuto il “diritto-dovere” (direbbe il procuratore Greco) di investire i suoi risparmi dove meglio gli pareva, guidato unicamente dalla ricerca della migliore combinazione rischio-rendimento. Un modello efficiente-efficace anche nella prospettiva macro: nella cui cornice i risparmi-capitali dovrebbero sempre andare “a chi li merita” e il ruolo di un sano sistema finanziario sarebbe appunto quello di mettere in contatto un euro di risparmio italiano con un euro di domanda di investimenti produttivi in Vietnam, se in Vietnam gli imprenditori sono più bravi e affidabili di quelli della Calabria.
Non per questo l’idea di restituire allo Stato (o alla stessa Cdp, in funzione “nuova Iri”) un ruolo di canalizzazione dirigista del risparmio nazionale verso progetti di pubblica utilità va scartata a priori, anzi. Ma essa non può trascurare una seria riflessione sulle “idee” precedenti. Su come si sono formate e sul perché sono state a lungo “vangelo” mediatico egemone. E su come e perché oggi sono oggetto di precipitosa “riconversione”. Il punto non è etico-intellettuale, ma politico-economico. Come ha notato Giuliano Ferrara, sempre nel fine settimana, il manifesto lanciato dall’Economist per un “liberalismo popolare generoso e compassionevole” convince poco non tanto per il sentore di “ipocrisia” e di “moralismo ex post”, quanto perché rischia di essere controproducente ai fini di rigenerazione della vera risorsa economica distrutta già da un decennio: la “fiducia” del “popolo” nelle “idee” (e anche nei media che le diffondono).