L’“ispirazione” di chiamare Sergio Mattarella a un mandato bis al Quirinale bis resiste, anzi cresce nell’emiciclo delle Camere riunite. Se ne precisano la mani votanti: distribuite fra Pd (ex Dc-Margherita, capofila il ministro Dario Franceschini; ed ex Ds, pilotati dal ministro Andrea Orlando); Leu compatta (“Ditta” D’Alema-Bersani) ed M5s, anche se presumibilmente si tratta di un drappello minoritario mosso da Giuseppe Conte (non certo da Luigi Di Maio o da Alessandro Di Battista). Sul nome del presidente uscente è in corso una partita rischiosa, chissà quanto gradita all’interessato: che tuttavia tace, com’è suo stile personale.
I 166 voti a Mattarella certamente connotano una candidatura di parte, non più pienamente istituzionale. Ma sarebbe un errore limitarne il profilo “partisan” al tentativo puro e semplice del Pd di rimanere al Quirinale, occupato ininterrottamente dal 2006. Oggi è più forte e trasversale, con tutta evidenza, la pulsione alla pura sopravvivenza della cosiddetta “politica”. E le istanze elementari dei parlamentari predestinati all’espulsione al prossimo voto sembrano fondersi con quelle più complesse di chi è preoccupato per il futuro delle democrazia rappresentativa in Italia. Peraltro non senza qualche ragione, se la quarta giornata “quirinaria” ha visto maturare ben altre “ispirazioni”: tutte fuori dal Parlamento, a far balenare capi dello Stato non parlamentari.
Elisabetta Belloni, Sabino Cassese, Franco Frattini e Giampiero Massolo: sono questi i nomi entrati in partita ieri. In quattro assommano un solo mandato di deputato (Frattini). Tutti sono esponenti dell’altissima burocrazia in senso lato, talora a cavallo con l’esecutivo: Frattini (appena nominato presidente del Consiglio di Stato) è stato ministro della Funzione pubblica come Cassese (giudice costituzionale), commissario Ue e ministro degli Esteri (dove Massolo e Belloni sono stati a capo della struttura diplomatica nazionale). Tutti sono conosciuti poco o per nulla dai 60 milioni di cittadini della Repubblica italiana. Tutti appartengono poco o per nulla alla “politica” nazionale, in trincea per sopravvivere. Eppure sono i loro nomi che i leader di partito erano sul punto di setacciare in una seconda “notte bianca” di fila. Perché?
Non sembra aver torto Matteo Renzi quando invita a guardare a uno scacchiere geopolitico sempre più agitato e incerto: attorno alla crisi ucraina ma non solo. Sarà un caso, ma la candidatura Belloni – certamente “rosa” – ha preso forma all’indomani della controversa “zoomata” fra il presidente russo Vladimir Putin e alcuni capi di grandi aziende italiane. Belloni sarebbe sostenuta da M5s: in parte da Conte (un premier non parlamentare titolare diretto per trenta mesi della delega ai servizi di intelligence) ma non spiacerebbe a Di Maio, che è arrivato alla Farnesina quando Belloni era segretario generale. Quest’ultima non spiacerebbe – si dice – neppure al leader Pd Enrico Letta, né all’americanofilo Renzi. E, non da ultimo, sarebbe funzionale anche al premier Mario Draghi: che – approdato a Palazzo Chigi – ha affidato lui a Belloni la delicatissima delega all’intelligence.
Al Quirinale andrebbe dunque una “civil servant” attualmente alle dipendenze del premier sul terreno della sicurezza geopolitica. Belloni – una donna di sicura affidabilità per gli Usa sul doppio fronte russo-cinese – sarebbe un’opzione potenziale anche per Giorgia Meloni: non fosse altro per l’effetto-rottura che avrebbe all’interno del centrodestra, contro il movimentismo del leader leghista Matteo Salvini.
Ma il gioco delle “ispirazioni” – da dentro o da fuori il Parlamento – sta diventando pesante: ha messo fuori gioco, almeno sembra, figure di classico compromesso politico come Pierferdinando Casini o di sicura levatura interna e internazionale come Giuliano Amato. Ma le pressioni esterne – mosse dalla geopolitica globale – sono più forti di quelle percepite dai leader di partito. Sintetizzato in termini crudi: se il Parlamento italiano non accetta di votare Draghi al Quirinale, deve accettare un presidente del tutto congruente con la leadership “occidentale” di Draghi a Roma e forse soprattutto a Bruxelles. La resistenza sembra assumere le sembianze di Mattarella-bis: ma pare una partita dalle regole e poste non pienamente note agli stessi giocatori.
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