Caro direttore,
il collasso finale della magistratura italiana, in cronaca, si commenta da solo (e si commentano da sole, in fondo, anche le cronache). Sembra ormai superfluo anche notare come – spesso nelle stesse pagine – anziani senatori dell’ordine giudiziario si sentano autorizzati a commenti pensosi sul blitz di Parigi contro gli ex terroristi rossi: a conferma di come all’impunità quarantennale di molti “compagni che sbagliavano” abbia contribuito in misura sostanziale una magistratura ideologizzata e schierata, decisa ben prima di Mani Pulite a “correggere gli errori della democrazia” a senso unico. Una magistratura alla fine scoppiata come la bolla finanziaria che ha preso a gonfiarsi proprio negli anni 90: quando inquirenti e giudicanti hanno cominciato a sentirsi “master of universe” come i banchieri di cui essi solo sembravano poter decidere fortune o disgrazie.



La crisi del terzo potere costituzionale – grottesca nelle forme, ma drammatica nella sostanza istituzionale – non potrà più non essere infine affrontata. E il premier Draghi ha inserito non per caso nel Pnrr una “riforma della giustizia”, non per caso focalizzata sulla giustizia civile.

È questa, oggi, l’emergenza giudiziaria di famiglie e imprese di un Paese prostrato dalla pandemia e in cerca di Recovery. È su questo fronte che i magistrati devono – letteralmente – rimettersi a lavorare insieme al resto degli italiani. Ed è ritrovando questo spirito che la giustizia penale – ineliminabile – potrà rimettersi su corretti binari istituzionali: non quelli di un Paese in cui “i cittadini sentono ormai di doversi difendere dai magistrati” (Sabino Cassese).



In attesa che il ministro della Giustizia Marta Cartabia completi il suo lavoro – in condivisione con il premier e con il presidente della Repubblica, guida istituzionale anche del Csm – resta un’annotazione giornalistica a metà fra scienza politica e giuridica. Pare innegabile quanto meno la contemporaneità fra l’implosione del Csm attorno al “caso Palamara” e la lunga stagione dei Dpcm: quando il potere esecutivo ha governato il Paese in pandemia costantemente in via straordinaria, emarginando il potere legislativo che la Costituzione pone al centro della sovranità repubblicana.



La crisi finale dell’ordine giudiziario della seconda repubblica non è certo estranea alle pressioni e tensioni strutturali che hanno finito per mutare la fisionomia istituzionale degli altri due poteri. E, con più di un’evidenza, è la seconda repubblica italiana nel suo complesso ad essere entrata in crisi anche prima del Covid.

È una crisi incarnata dai suoi due personaggi-simbolo: Silvio Berlusconi e Romano Prodi, invecchiati non solo all’anagrafe. Ultimo epigono di una sinistra ideologica e novecentesca il leader dell’Ulivo; corifeo anomalo e mai realizzato, il Cavaliere, di una moderna destra liberale che l’Italia continua a non avere. L’ascesa contemporanea dei due “opposti populismi” di Lega e M5s appare sempre più l’effetto degenerativo del declino della Seconda Repubblica. E la realtà, come sempre, non attende mai di presentare il conto a chi tarda a comprenderla. O rifiuta di farlo. Siano politici, magistrati, giornalisti.  

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