Il viceministro dell’Economia Antonio Misiani ha parlato di possibile ingresso dello Stato in Stellantis, la società frutto della fusione tra Fca e Psa. Un’iniziativa, nel migliore dei casi, fuori tempo massimo, che avrebbe avuto un senso se effettuata prima del merger tra le due aziende e non dopo, nel caso fossimo convinti che questo sia un modo efficace per tutelare il valore del lavoro e del patrimonio industriale del Bel Paese. O per far pesare l’uso della politica per orientare le scelte oltre il semplice dato della convenienza-economica. La politique d’abord, insomma, strumento necessario per correggere gli eccessi del mercato.



Il caso ha voluto, però, che la nascita di Stellantis abbia coinciso con un pessimo esempio di programmazione degli interventi, di cui si è reso protagonista lo Stato francese, presente sia nel capitale dell’ex Peugeot, che dalle cugina Renault, la prima “fidanzata” di Fiat Chrysler scartata da John Elkann quando emerse poco prima delle nozze il complesso intreccio che legava l’operazione italiana alle sorti dell’alleanza con Nissan. È probabile che tra le cause di quella rottura abbiano avuto un ruolo attivo se non determinante i vertici Peugeot, in primis Carlos Tavares. L’effetto di quello strappo, certo non il primo nella storia delle due sorelle di Stato francesi, lo si è visto in questi giorni: Renault, che in questi mesi si è adoperata in ogni modo a Bruxelles per cercare di far saltare l’accordo Psa/Fca, ha deciso che non parteciperà assieme a Stellantis al varo di ACC, l’azienda che produrrà le batterie per l’auto elettrica, un progetto così voluto dallo Stato che un anno fa il ministero pose la partecipazione alla joint venture come condizione per concedere un prestito a Renault. Ma l’antipatia tra i due gruppi ormai è tale che Renault ha annunciato che costruirà un suo stabilimento per le batterie. E lo steso avverrà per l’auto a idrogeno, altro progetto finanziato dallo Stato che, con tutta evidenza, non è in grado di farsi obbedire.



Lasciamo perdere i problemi dei cugini, comunque meno gravi dei nostri. La vicenda ci permette però di sottolineare che il nazionalismo economico è un ben misero alibi dietro cui si nascondono, da Trump in giù, motivazioni ben meno nobili. Questo non vuole dire, però, che non esistono legittimi interessi di bandiera da servire. Il più delle volte in sintonia non in contrapposizione con gli altri. Anzi, è questo il presupposto del coordinamento necessario per far funzionare il Next Generation Eu. In questo quadro appare dunque imperdonabile l’inadeguatezza e il ritardo di alcuni Paesi europei nel sottoporre a Bruxelles i piani nazionali e, diciamolo, la povertà di questi piani se pure ancora in bozza: l’uscita dalla crisi sanitaria ed economica dipenderà dall’azione collettiva e coordinata dei vari Paesi, dal debito, alle vaccinazioni alla crescita. Ma la bandierina della nazionalità del capitale conta poco o nulla.

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