Mentre alla Sapienza di Roma gli studenti anti-israeliani hanno nuovamente sfidato i manganelli delle forze dell’ordine, è tornato a scaldarsi anche il fronte interno della guerra di Gaza nei campus statunitensi. La Camera del Congresso Usa ha infatti convocato la presidente della Columbia University, Minouche Shafik, per dibattere con lei i “moti” filo-palestinesi che continuano a scuotere anche il più famoso ateneo di New York.



Shafik avrebbe dovuto essere audita a Washington già quattro mesi fa, assieme alle colleghe di Harvard, Penn e MIT (le prime due ne uscirono brutalmente dimissionate dalle rispettive università con l’accusa di antisemitismo per aver difeso la libertà di parola degli studenti anti-israeliani). La rettrice della Columbia poté sottrarsi al “grill” dei deputati (soprattutto repubblicani) ufficialmente per motivi d’agenda, nella sostanza per almeno due ragioni, abbastanza visibili e rilevanti.



La prima è che il campus sulle rive dell’Hudson è uno degli “hub” dell’ebraismo liberal statunitense: quello apertamente contrario al sovranismo religioso del Governo Netanyahu e alla sua escalation bellicista (tanto che le proteste anti-israeliane non sono venute solo dagli studenti ma anche da robusti settori del corpo docente). La Columbia era quindi a fine 2023 un bastione culturale non facilmente aggredibile dalla “caccia alle streghe antisemite” scatenata dai repubblicani, legati a filo doppio con le destre al potere a Gerusalemme e con una fetta importante della comunità ebraica Usa. Tanto meno il campus poteva essere teatro – all’inizio di un anno elettorale – di uno scontro intestino fra israeliti, nella città di Trump (sotto processo a Manhattan) peraltro saldamente presidiata dai “dem” radicali, che hanno eletto da un quarto di secolo a New York il capogruppo “dem” al Senato, l’israelita Chuck Schumer, protagonista pochi giorni fa di un duro appello a Israele perché rimuova Netanyahu e riprenda a negoziare la pace.



Shafik, in secondo luogo, non è una semplice icona “afro-rosa” com’era la politologa Pauline Gay, cacciata in una notte dal vertice di Harvard. L’economista di radici egiziane con laurea a Oxford è stata vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, vicepresidente della Banca Mondiale, vicedirettore generale del Fmi e presidente della London School of Economics; e per tutto questo la baronessa Shafik occupa una seggio a vita nella Camera dei Lord a Londra. La prima moglie di Mohamed El-Erian – supergestore-guru a Pimco e commentatore-principe del Financial Times – è dunque un membro a pieno titolo dell’establishment angloamericano: non gratuitamente sacrificabile in una “culture war” costruita su una guerra vera.

In un articolo pubblicato sul Wall Street Journal, la rettrice della Columbia ha significativamente preannunciato di voler tenere, in Campidoglio, una linea non così diversa da quella fatale alle due sue colleghe. In un passaggio centrale Shafik si prefigge come obiettivo sintetico di “riconciliare il diritto di parola di una parte della nostra comunità con i diritti di un’altra parte di vivere in un ambiente libero dalla paura, dalla molestia e dalla discriminazione”.

È una linea culturalmente e politicamente ambiziosa: all’interno degli Usa in campagna presidenziale e sullo scacchiere mediorientale, sempre più bruciante dopo lo scambio di colpi fra Israele e Iran. È una posizione che – riconfermando con forza il rifiuto di ogni antisemitismo e riconoscendo la gravità assoluta del primo attacco di Hamas – distingue però la libertà di dissenso con Israele oggi: anche se a condizione pregiudiziale di tenere fuori dai campus ogni espressione di violenza e ogni linguaggio d’odio.

È un discorso che sembra sposare la postura – pur difficile – dell’Amministrazione Biden sulla guerra di Gaza; e quindi, più in generale, la politica estera “dem” a sei mesi dal voto per la Casa Bianca. È un approccio che sembra invece dialettico con le maniere rudi dei miliardari israeliti di Wall Street (molto vicini ai repubblicani e a Netanyahu) che hanno alimentato il “caso Harvard” e preteso di ribadire a tutto campo l’equazione stretta e automatica fra critica a Israele e antisemitismo. Fra “essere americani/occidentali” e “parteggiare per Israele”, chiunque e comunque governi a Gerusalemme.

Sarà ora interessante osservare come questa “controffensiva” promossa degli ebrei liberal – ma condotta da una celebrity cosmopolita che parla fra l’altro l’arabo – si misurerà nell’aula del Committee for Education di una House a maggioranza repubblicana. Nel frattempo non sembra inutile osservare in controluce gli sviluppi italiani.

Negli incidenti della Sapienza si è registrato un ulteriore cambio di scena, due mesi dopo i “manganelli di Pisa”. Le forze dell’ordine sono tornate in campo dopo l’energico stop a suo tempo imposto dal Quirinale direttamente al ministro degli Interni (con la rimozione di una dirigente della Pubblica sicurezza). Alcune settimane di totale “libertà di pensiero e parola” – contro Israele, contro il Governo Meloni e perfino contro la senatrice a vita Liliana Segre – sono state così di fatto garantite dal presidente della Repubblica, contro la linea di tutela stretta della comunità ebraica impostata dal Governo a Pisa. In questo periodo la contestazione studentesca ha però inanellato episodi di crescente impatto mediatico: come l’occupazione del Senato accademico dell’Università di Torino (che ha dovuto stracciare gli accordi di cooperazione con gli atenei israeliani) e l’impedimento al direttore di Repubblica Maurizio Molinari di parlare all’Università Federico II di Napoli.<

L’altro ieri il Senato accademico della Sapienza ha invece potuto resistere a un ennesimo tentativo di pressione violenta contro i rapporti accademici fra Roma e Gerusalemme. Ha potuto farlo perché la polizia è tornata a contrastare con la forza manifestazioni che certamente minacciavano l’ordine pubblico in un’università statale e non potevano essere considerate “pacifiche” a termini dell’articolo 17 della Costituzione. Cortei che trasudavano invece “intolleranza” (ha dovuto riconoscerlo già alcuni giorni fa anche il Quirinale, costretto a una serie di correzioni di rotta).

Lo sviluppo non sembra essere così diverso dalla situazione di partenza alla base della proposta “riconciliativa” della rettrice della Columbia. Il cui succo resta: contestare Israele si può – anche in un’università, italiana o statunitense -, ma non con mezzi che possono rendere lecito il sospetto di ritorni di fiamma antisemiti e il rischio di inquinamento grave del peculiare contesto umano di un’istituzione educativa. Più in generale: nei Paesi del G7 si può democraticamente sostenere qualsiasi istanza (anche quella dei palestinesi contro Israele), ma senza espressioni neppure minime di odio razziale o religioso (e senza distinzioni fra etnie o fedi, tutte costituzionalmente eguali).

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