Questa storia delle misure cautelari preventive e per sproporzione, legate nel caso di specie alla presunzione dell’evasione fiscale, ha trovato più che mai compatto il fronte imprenditoriale che reputa intollerabile, ancor più della norma in sé, il principio che la ispira: prima ti ammazzo e poi, se mi sono sbagliato, non ti chiedo neanche scusa.



L’esperienza insegna infatti che la stragrande maggioranza delle accuse mosse nella fase delle indagini preliminari cadono miseramente alla prova del giudizio e cioè molti e molti anni dopo l’inizio del processo e quando la frittata è stata già fatta. Disporre sequestri e altri provvedimenti invasivi sulla base del solo dubbio non è il massimo della rassicurazione.



Quello che si contesta non è l’obiettivo che si dichiara di voler raggiungere – la lotta all’evasione fiscale – che è naturalmente condivisibile e condiviso, ma il modo attraverso il quale s’immagina d’intervenire: devastando il campo d’azione senza aver ancora accertato la verità, mettendo le manette alle aziende prima che arrivi una sentenza di condanna.

Di questo modo di pensare, di questo modo di agire, tutti dovremmo avere timore, perché se diventasse la regola poco resterebbe della certezza del diritto e delle libertà democratiche. Un solo pubblico ministero, una sola procura, avrebbero la possibilità di fare giustizia sommaria – che naturalmente giustizia non è – alla presenza del semplice sospetto.



Anche se le forze politiche che stanno dietro a questo capolavoro giuridico lo negano, non c’è dubbio che ad alimentare il pregiudizio negativo sia la forte cultura antindustriale che resiste nel nostro Paese a dispetto del fatto che solo le imprese possono creare quella ricchezza e quei posti di lavoro che si vorrebbero invece generare con la bacchetta magica.

Non si tratta dell’unico indizio che va in questa direzione. Piuttosto che alitare in favore dei fattori di produzione, come sarebbe pacifico e naturale se il fine che ci si propone è la crescita, lo spirito che anima il Governo giallo-rosso (più ancora di quello giallo-verde?) porta a concepire soluzioni che quei fattori mortificano con ciò aggravando i problemi che si vorrebbero risolvere.

Vale per tassa sulla plastica, per esempio, come per quelle sulle bibite zuccherate e le auto aziendali. Balzelli capaci di mettere fuori gioco interi pezzi d’industria nazionale solo perché non si sono analizzate a fondo le ripercussioni di determinate scelte sull’economia reale: poca dimestichezza, superficialità, indifferenza nei confronti di chi lavora e produce.

Anche l’atteggiamento tenuto con ArcelorMittal nel voler regolare i rapporti relativi alla gestione dell’ex Ilva di Taranto si iscrive in questo quadro di diffidenza. La pretesa di porre un cappio al collo della multinazionale, eliminando la protezione legale prima accordata, non ha avuto altro effetto che rinforzare la voglia di fuga dall’impianto probabilmente già maturata.

La troppa sfiducia iniettata nel sistema finisce per ritorcersi contro chi la produce. E quando i rimedi peggiori del male cominciano a moltiplicarsi perfino un popolo docile come quello italiano va in fibrillazione e s’interroga sul futuro che gli si para davanti. Una cosa è discettare di decrescita nei salotti, un’altra è provarne le conseguenze sulla pelle.

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