Un’intervista al direttore dell’Agenzia delle entrate, in sé, non rappresenta un’anomalia. Lo diventa certamente quando – com’è avvenuto ieri su un grande quotidiano – essa compare sotto questo titolone di prima pagina: “Il governo riscrive il Fisco”. Alla vigilia della preparazione della legge di stabilità, in una fase eccezionale per le finanze pubbliche.



Ruffini, capo del principale braccio dell’amministrazione finanziaria, non è “il governo”: mai, in nessun modo. Qualsiasi docente di diritto costituzionale boccerebbe uno studente che affermasse o mostrasse di credere il contrario. Il “governo” è il presidente del Consiglio con i ministri, i loro vice e i sottosegretari. L’Agenzia delle entrate è pubblica amministrazione: completamente un’altra cosa.



Il direttore dell’Agenzia delle entrate è un alto burocrate scelto dal governo – in riporto al ministro dell’Economia – con un compito esclusivo: applicare le leggi e gli altri atti normativi varati dall’esecutivo e dal titolare del Mef (sotto il controllo democratico del Parlamento) per regolare il prelievo tributario statale. Nel farlo, il direttore dell’Agenzia delle entrate è direttamente vincolato all’efficienza e all’efficacia amministrativa. Deve garantire all’Erario l’intero gettito cui le leggi in vigore danno diritto allo Stato, implementando quotidianamente la lotta ad ogni forma di evasione. Deve far funzionare al meglio, in tempo reale, la macchina del fisco per assicurare il finanziamento delle uscite. Non da ultimo, deve rispettare i diritti del contribuente (oggi è difeso da uno specifico Statuto), anzi: deve “ingegnerizzare” al meglio su tutti i lati i processi di accertamento e riscossione in un orizzonte d’interesse per molti versi generale nel sistema-Paese.



Questo deve fare il direttore dell’Agenzia delle entrate: non “riscrivere il Fisco”: e neppure parlarne (e i media che accolgono o sollecitano un’intervista di questo tenore sono conniventi in una violazione della democrazia sostanziale; così come lo è qualsiasi istituzione di garanzia che si tiene in una silenziosa confort-zone di fronte a queste scene di post-democrazia mediatica).

È comunque la terza volta in sole due settimane che un soggetto burocratico gioca a fare il ministro o addirittura il leader politico.

Il primo è stato il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, controverso protagonista della fuga di notizie sui parlamentari beneficiari dei sussidi Covid. Tanto più grave si è rivelato l’“incidente Tridico”, per molte ragioni: a) le minacce legali ai media che avessero voluto approfondire un leak inequivocabilmente nato all’interno dell’Inps; b) la parzialità politica del leak che ha finito per colpire solo parlamentari di un partito d’opposizione e ha tenuto coperti altri casi accertati in partiti di maggioranza; c) un opaco contatto “personale” sulla questione fra Tridico e un capogruppo parlamentare della maggioranza; d) soprattutto: le gravissime inefficienze amministrative precedenti dell’Inps nel gestire i sussidi decisi dal governo nelle cruciali settimane del lockdown; e) le gravissime violazioni della privacy di migliaia di cittadini, attribuita dall’Inps a un attacco hacker mai provato e presumibilmente mai avvenuto.

Il secondo a spasso sulle strade della politica è stato Walter Ricciardi, consulente del ministero per la Salute per l’emergenza Covid. Presentato da governo e media come “tecnico dell’Oms”, è risultato invece “rappresentante italiano presso l’Oms”, di nomina politica (governo Gentiloni). Ricciardi ha collegato la preoccupazione per il rialzo dei contagi Covid al possibile rinvio dell’election day del 20-21 settembre. Come tutte le altre scadenze di voto, quella per il referendum e i rinnovi dei consigli regionali è stata fissata lo scorso 14 luglio dal Consiglio dei ministri e firmata tre giorni dopo dal presidente della Repubblica. Com’è stato possibile che Ricciardi un mese dopo abbia ventilato un rinvio? Com’è potuto accadere – ammesso che sia vero – che abbia parlato in libertà all’oscuro dello stesso ministro della Salute, del premier (e del suo onnipotente gestore della comunicazione) e del ministro degli Interni, competente sulle elezioni?      

Tre indizi fanno una prova: lo dice una norma non scritta del mondo giudiziario. Cioè dell’ambito della vita pubblica italiana controllato dal primo e più importante apparato dello Stato che, da decenni ormai, mostra indifferenza e insofferenza crescenti per i principi della democrazia costituzionale: che più di un magistrato si è anzi prefisso di “correggere”. Nel frattempo le “libere uscite” dei burocrati si moltiplicano quando più di un costituzionalista (anzitutto Sabino Cassese, già giudice della Consulta) ha lanciato un allarme rosso per la pericolosa emarginazione del Parlamento, che la Carta pone tuttora al centro della sovranità democratica. La “democratura di fatto” avviata nel lockdown da un premier non eletto sembra intanto galoppare: anzitutto nelle debolezze prodotte dalla forzatura sistematica di norme e prassi costituzionali.

Il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, è stata lasciata sola da Conte e dagli altri ministri di fronte alla sfida lanciata dal governatore della Sicilia, Nello Musumeci, sulla gestione dei flussi migratori in tempo di Covid. L’ex prefetto di Milano ha mostrato dignità encomiabile nel rispondere per parte sua alla mossa di Musumeci: peraltro istituzionalmente e soprattutto politicamente fondata (sarebbe interessante che qualche istituto di sondaggi conducesse un poll su un unico quesito: “Siete d’accordo o no con il governatore della Sicilia che vuole bloccare gli sbarchi perché a suo avviso aumentano il rischio di seconda ondata Covid quando si stanno riaprendo le scuole?”).

Proprio per questo la risposta di un governo degno di questo nome dovrebbe essere politica e provenire dal suo livello massimo: quello di un premier loquacissimo “verso la nazione” durante il lockdown.

Ha mostrato dal canto suo una profonda onestà di ruolo l’ex burocrate Lamorgese promossa ministro. Ha detto di ritenere scorretto sul piano legale l’atto della Regione Sicilia: ma non può essere il Viminale (per di più retto da un tecnico) ad impugnarlo senza l’assunzione di piena responsabilità politica da parte del governo. Ha riconosciuto, Lamorgese, che la situazione sul fronte migratorio in tempi di Covid è complessa e non ha avuto timore – negli ultimi giorni – di diffondere cifre aggiornate sugli sbarchi. Ha ricordato le iniziative straordinarie prese dal Viminale per fronteggiare l’“emergenza nell’emergenza” (anzitutto l’utilizzo di navi-quarantena). Ha menzionato lo specifico “focolaio” di migrazione economica dalla Tunisia: ma certamente non può essere il ministro dell’Interno a parlare delle relazioni fra Roma e il governo di Tunisi e degli scenari geopolitici nel Nord Africa (dovrebbero farlo il ministro degli Esteri e in ultima analisi il premier).

Né può essere il Viminale a rompere il silenzio che Palazzo Chigi e la Farnesina stanno tenendo sul totale silenzio mantenuto dalla Ue sulla questione (in marzo, invece, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente dell’europarlamento David Sassoli volarono ad Atene per dare totale appoggio al governo greco, intenzionato a tener chiusa la frontiera europea con la Turchia, assediata dai profughi siriani).

Infine: non può essere Lamorgese ad accennare ad eventuali accordi non scritti assunti da Conte al vertice Ue di metà luglio sul Recovery Fund. Se – come ha rivelato Emma Bonino, che da ministro degli Esteri firmò gli Accordi di Dublino – i governi italiani di centrosinistra scambiarono tacitamente con Bruxelles flessibilità finanziaria ordinaria con la presa in carica dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, tanto più appare verosimile che questa “condizionalità implicita” sia stata inclusa allorché all’Italia sono stati appena accordati dalla Ue più di 200 miliardi di sostegni finanziari straordinari. Non vi sarebbe nulla di anomalo in sé: un governo che gode della fiducia del Parlamento può assumere qualsiasi impegno internazionale entro i limiti della Costituzione nazionale e dei trattati esterni. Nel caso specifico, un anno dopo la nascita del Conte 2 nel nome del rovesciamento “europeo” delle politiche sul fronte migratorio, sarebbe anzi un passaggio che rafforzerebbe una credibilità politica mai veramente consolidatasi. Certo: non è cosa da burocrati furbi e giocherelloni.