Complici le tensioni fra i due partner della maggioranza, la Banca d’Italia è riuscita a condurre in porto un complesso ricambio del vertice, ratificato l’altra sera dal Consiglio dei ministri. La promozione di Fabio Panetta a direttore generale, il via libera alle designazioni di Daniele Franco e Alessandra Perrazzelli a vicedirettore generale e soprattutto lo”scongelamento” di Luigi Federico Signorini, confermato come terzo “vice” del Direttorio, segnano una quasi-vittoria ai punti per via Nazionale, sempre discretamente sorvegliata dal Quirinale. La Lega ha peraltro mantenuto in Consiglio i suoi dubbi su Perrazzelli (e sulla sconfessione – da parte dello stesso governatore Ignazio Visco – della “scuola interna” di palazzo Koch) e ha preannunciato un progetto di riforma della banca centrale. Un tema che sembra tenere aperta la prospettiva di una Commissione parlamentare d’inchiesta-bis su settore bancario e vigilanza.



A conti fatti l’indipendenza di palazzo Koch è apparsa tutelata nella forma, meno nella sostanza: il Governo ha dettato tempi e alcuni modi del rimpasto, ha imposto il “sacrificio pubblico” del dg Salvatore Rossi, ha fatto propria la candidatura Panetta in chiave anti-Ue/Bce, ha liberato la poltrona strategica di Ragioniere generale dello Stato e ha spinto Visco a mettere sul tavolo il nome di Perrazzelli (tecnicamente e politicamente discutibile) per bloccare l’arrivo da Francoforte dell’economista Floriana Pelizzon, esperta di finanza derivata e vicina alla Bce di Mario Draghi.



Bankitalia ha tenuto il punto, senza dubbio, sulla conferma di Signorini: fra l’altro delegato alla vigilanza bancaria nel Direttorio uscente. E proprio Signorini è – non per coincidenza – il trait-d’-union con una situazione di più generale instabilità dei rapporti fra banche centrali e istituzioni di governo, in attesa dell’avvicendamento-chiave in Bce dopo il voto europeo. 

Sui media ha ovviamente avuto risalto lo specifico “trumpismo” in azione da parte della  Casa Bianca verso la Fed sul terreno classico della politica monetaria (sono stati d’altronde dimenticati un po’ troppo in fretta i modi ruvidissimi del superfalco tedesco Wolfgang Schauble con Mario Draghi alla stretta della crisi greca). Restano peraltro sottotraccia passaggi di segno contrario: di tenace resistenza tecnocratica dei banchieri centrali alle diverse spinte sovraniste. Uno di questi è certamente la recentissima decisione dell’Eba – l’authority bancaria dell’Unione europea – di non dar seguiti sanzionatori al caso di maxi-riciclaggio che ha visto al centro Danske Bank in asse con una pattuglia di banche baltiche.



Nella sonnolenza delle vacanze pasquali e con l’eurocrazia ormai in stand-by pre-elettorale, il consiglio dell’Eba si è riunito per esaminare il dossier preparato dalla struttura sui 200 miliardi di euro di capitali  (per lo più provenienti dalla Russia) oggetto di presunto “money laundering” verso l’Ue. La seduta è stata presieduta ad interim dal belga Jo Swyngedouw: non è infatti ancora stato sostituito l’italiano Andrea Enria, trasferito a fine 2018 al vertice del Consiglio di supervisione della Bce. Non è noto neppure se alla riunione abbia partecipato Signorini, rappresentante italiano: ma è presumibile che il “congelamento” in Bankitalia glielo abbia impedito. L’authority nel suo complesso è in una fase di delicata transizione, legata al previsto trasferimento da Londra a Parigi per via di Brexit. 

La seduta, hanno riferito indiscrezioni, è stata animata: il rapporto dei tecnici Eba avrebbe confermato violazioni evidenti della regolamentazione Ue anti-riciclaggio. Eppure l’esito (con voto a maggioranza, ma senza dettagli su chi ha votato come) è stato un “non luogo a procedere”: almeno in questa fase. Nessuna raccomandazione su eventuali aperture di procedura d’infrazione sarà dunque fatta pervenire alla Commissione Ue in scadenza con riguardo a Danimarca e altri paesi nordici dell’Ue.

Ciò non ha peraltro impedito al vicepresidente della Commissione, il lettone Valdis Dombrovskis, di esprimere un giudizio di insoddisfazione: apparso d’altronde un po’ paradossale. Nella grande rete del riciclaggio creatasi attorno a Danske non sono risultate estranee banche lettoni e indagini condotte a Riga avevano portato mesi fa alla clamorosa rimozione del governatore della banca centrale Ilmars Rimsevics, con accuse di corruzione. Rimsevics aveva accompagnato l’ascesa di Dombrovskis prima come ministro delle Finanze, poi come Premier lettone e vicepresidente a Bruxelles. La caduta del primo è stata d’altronde parallela al recente crollo elettorale dei partiti europeisti che hanno avuto  Dombrovskis fra i loro leader. 

Licenziato in patria, Rimsevics è stato comunque vigorosamente difeso dalla Bce di Draghi, che ha ottenuto il suo mantenimento in carica come membro lettone del Consiglio generale. Ora il Financial Times – critico verso l’insabbiamento del caso Danske da parte dell’Eba – suggerisce “riforme” per l’authority (sembra esserci nel suo destino la soppressione a favore della Bce)  e raccomanda al successore di Draghi a Francoforte si aprire rappresentanze Bce in tutte le capitali (ma non ci sono già le banche centrali nazionali?). La paralisi dell’Eba e la stessa impasse di Signorini paiono in ogni caso un versante simbolico di una crisi più generale e strutturale dei rapporti fra tecnocrazie bancarie e politica. Se ne occuperà il nuovo euro-parlamento. Ma i tecnocrati sembrano già giocare in ostruzione. Contando sui mercati come partner di sempre, ma non sempre affidabili di fronte a lusinghe e minacce di una politica forte.