Una nuova e preziosa edizione della Teoria Generale di John Maynard Keynes si affaccia sugli scaffali delle librerie italiane grazie allo scrupoloso lavoro di Giorgio La Malfa che ne firma l’introduzione e alla Mondadori che l’ha meritoriamente pubblicata nella collana dei Meridiani. Da quasi cento anni – la Teoria è del 1936 – Keynes è sempre di moda, anche quando sembra uscire di scena. Ed è tirato in ballo per verificare o smentire una tesi o una politica economica qualche volta a proposito e molte più volte a sproposito. È così Generale la sua Teoria che ognuno trova quel che cerca.



E così manovre spendaccione – in tutto il mondo, non solo da noi – si dicono keynesiane perché immettono liquidità nel sistema sostenendo la domanda con lavori inventati, redditi regalati e altre amenità del genere. Il tutto con il timbro del più acuto e amato-odiato intellettuale del Novecento.

È vero, Keynes non credeva nell’equilibrio naturale del mercato e del naturale conseguimento della piena occupazione. Alla teoria classica che tutto faceva quadrare a patto che si verificassero determinate condizioni contrapponeva l’osservazione quotidiana e l’esperienza che dicevano tutt’altro.



L’equilibrio nel mondo reale si ottiene intervenendo con strumenti adeguati, calibrati per raggiungere gli obiettivi desiderati. E se l’obiettivo è creare più occupazione è lecito in periodi di crisi far fronte con investimenti pubblici alla carenza di quelli privati facendo lievitare la spesa e il deficit. Anche scavando e colmando buche, per paradosso, pur di mettere a lavorare quante più persone è possibile, attribuire a tutte loro un reddito, immettere moneta nel circuito, stimolare i consumi, contribuire alla ripresa. Per paradosso, anche se troppo spesso avviene per davvero.



Inoltre, il precetto di Keynes non è stato pensato per durare tutta la vita, ma solo per il tempo utile a superare la fase acuta delle difficoltà contingenti per poi doverosamente lasciare il posto alle pratiche riparatrici in grado di aggiustare il bilancio e assorbire le conseguenze della finanza allegra.

Si può peccare, insomma, ma per un po’. E solo se subito dopo si fa penitenza e si rimette la coscienza a posto. Che nel nostro caso prende forma e consistenza del debito pubblico che appunto misura la nostra virtù. Una virtù decisamente compromessa dall’eccessivo peso per ingordigia manifesta.

Il fatto è che il nostro debito pubblico è cresciuto a dismisura rispetto alla ricchezza prodotta (il famoso rapporto con il Pil) sia nelle fasi di grassa che in quelle di magra. A prescindere dal momento attraversato, buono o cattivo, il debito è lievitato sempre. Senza sgonfiarsi mai. E questo è un gran problema. Di più, questo è il problema principale che l’Italia si trova oggi ad affrontare perché un debito pubblico perennemente troppo alto rappresenta un costo elevato per i contribuenti che sono chiamati a pagarne gli interessi. Con risorse che sono sottratte alla crescita che infatti langue. E con la sua rigidità impedisce di realizzare quel movimento elastico che Keynes suggerisce in funzione anticiclica: pompare soldi quando serve, riempire la cisterna quando si può.

Ecco dove s’inceppa in Italia la Teoria del grande economista: da noi si è sempre e solo pompato. Mai riempito.