“Per me Netanyahu è benvenuto in Italia”. L’uscita del vicepremier Matteo Salvini – ieri a valle del mandato d’arresto internazionale spiccato contro il premier israeliano – è parsa una sportellata fra tante all’interno della maggioranza di destra-centro, nella maretta fisiologica che è seguita a due voti regionali vinti dal centrosinistra. È verosimile che almeno in parte lo sia stata.
In fondo è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto (ritenuto l’esponente di FdI più vicino alla premier Giorgia Meloni) a voler commentare a caldo la svolta decisa dalla Corte penale internazionale (Cpi), riconoscendone subito la piena efficacia per l’Italia, apparentemente a nome del governo. Dell’esecutivo Meloni, però, un vicepremier è il leader della Lega, l’altro è Antonio Tajani (FI), titolare degli Esteri. L’uscita di Salvini ha quindi sollecitato una presa di posizione da parte della stessa premier (“Israele e Hamas non si equivalgono”, a conferma interlocutoria di un allineamento dell’Italia agli Usa nell’appoggio a Gerusalemme) e quindi di Tajani (“Ne parleremo al G7 con gli alleati”). Il “diverso parere” di Salvini su Netanyahu può essere dunque suonato un po’ disturbante, ma non è apparso fuori perimetro nella dinamica dei rapporti interni alla maggioranza. Sotto la superficie tattica, tuttavia, sembra trasparire altro.
Salvini, certamente, non ha mai dimenticato il ribaltone dell’estate 2019, quando la sua Lega fu espulsa dal governo gialloverde nonostante si fosse imposta in misura schiacciante al voto europeo. Il leader della Lega era vicepremier anche allora, con la delega agli Interni. Dovette assistere dal banco del governo a Palazzo Madama alla seduta in cui, nei fatti, venne sfiduciato “ad personam” davanti a un’aula in cui un anno prima era stato confermato come senatore eletto.
La “pubblica accusa” fu pronunciata da un premier non eletto come il grillino Giuseppe Conte. Ma alla requisitoria partecipò in modo importante la senatrice a vita Liliana Segre: l’unica nominata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (un leader storico del Pd, che con il ribaltone rientrò al governo). Segre, onorata del laticlavio come reduce e testimone della Shoah, pronunciò un intervento di forte tonalità politica – non rituale per un senatore a vita – che aveva come bersaglio inequivoco lo stesso Salvini. “Mi hanno preoccupato – disse fra l’altro – i numerosi episodi susseguitisi durante l’ultimo anno, che mi hanno fatto temere un imbarbarimento con casi di razzismo trattati con indulgenza, la diffusione dei linguaggi di odio. Anche con l’utilizzo di simboli religiosi in modo farsesco e pericoloso, un revival del Gott mit uns”. Fu in quel preannuncio pubblico di fiducia al Conte 2 che la senatrice ventilò una commissione parlamentare straordinaria contro il “discorso d’odio”. Essa fu materialmente istituita – con Segre presidente – da lì a poche settimane: il giorno dopo l’affermazione del centrodestra alle elezioni in Umbria di cinque anni fa.
Nell’autunno 2024, Salvini e la destra italiana hanno perso l’Umbria ma non sono più indiziati a prescindere di odio antisemita (per la verità non lo erano più già allora per l’Unione delle comunità ebraiche in Italia o per l’ambasciata israeliana a Roma, con Netanyahu premier). Lo erano invece nella narrazione delle sinistre – peraltro storicamente filo-palestinesi – che adottarono la senatrice “anti-odio antisemita” nella successiva campagna elettorale per le regionali in Emilia-Romagna. Ma le sinistre di allora sono le stesse che – soprattutto sul versante antagonista – da un anno agitano università e piazze con proteste sempre più violente contro lo Stato ebraico per la guerra di Gaza. E il ramo italiano delle proteste europee anti-Netanyahu ha potuto farsi strada sotto la tutela (almeno iniziale) del Quirinale, preoccupato della libertà di parola e di manifestazione nella democrazia italiana, anche quando i cortei hanno preso ad attaccare direttamente la senatrice Segre. Il tutto nel silenzio alla fine ambiguo tenuto dalla segretaria dem Elly Schlein, figlia di un politologo israelita liberal statunitense.
Su questo sfondo è difficile non scorgere l’onda lunga del ribaltone 2019 sulla sortita di Salvini pro-Netanyahu. Sul leader leghista continua a pesare – soprattutto in Europa – il venticello-fatwa di “neo-nazismo” soffiato a suo tempo dalla senatrice Segre, icona internazionale del contrasto all’antisemitismo. Oggi è però il vicepremier leghista a mostrarsi subito solidale – senza se e senza ma – con il premier dello Stato ebraico che denuncia come “antisemita” la Cpi. Dalla senatrice non è giunto per ora nessun commento specifico sugli sviluppi del caso Netanyahu. Negli ultimi tredici mesi ha ribadito più volte di “non sentirsi responsabile di come agisce lo Stato israeliano” e di considerare d’altronde “una bestemmia” l’accusa di “genocidio” per Israele a Gaza (su cui insiste invece la Cpi). Una posizione non compiuta, sebbene sostanzialmente avvicinabile a quella del governo italiano di centrodestra, non a quella delle sinistre che hanno ribaltato su Israele l’accusa di “odio razziale”.
Da ultimo, la vicenda sembra quindi interpellare la comunità ebraica italiana (europea) assai più del governo o della sua maggioranza. È bastato osservare ieri le posizioni duramente contrapposte di due importanti voci israelite del giornalismo italiano. Giuliano Ferrara si è scagliato contro la “Corte della vergogna che equipara Israele ad Hamas”. Per Gad Lerner, al contrario, “lanciare a sproposito (contro la Cpi) l’accusa di antisemitismo è una strumentalizzazione ignobile della storia ebraica e un’ulteriore macchia sulla reputazione d’Israele”.
Un segnale emblematico di impasse è giunto anche da un passaggio apparentemente minore come l’annuncio dei premiati con l’Ambrogino d’Oro da parte del Comune di Milano: la città della senatrice Segre, oggi amministrata dalla giunta di centrosinistra del sindaco Beppe Sala. Fra i nuovi “Nobel meneghini” c’è l’ex presidente dell’Anpi provinciale, Roberto Cenati: con la motivazione – si legge nelle cronache – “di essersi dimesso nel marzo scorso perché non condivideva l’utilizzo della parola ‘genocidio’ per quanto sta accadendo a Gaza”. Niente Ambrogino, invece, per il presidente della comunità ebraica milanese, Walker Meghnagi. Era stato candidato dall’eurodeputata leghista Silvia Sardone, iniziativa cui Meghnagi aveva però detto in seguito di “rinunciare”. Lo stesso presidente degli israeliti milanesi si era comunque ritrovato sul proscenio mediatico la scorsa estate, quando aveva espresso apprezzamento al governo Meloni per l’impegno “a fare pulizia dell’antisemitismo”. “Ci sentiamo protetti da FdI”, aveva detto, in un incidente polemico che aveva finito per attirargli una minaccia di querela da parte del vertice nazionale di Alleanza Verdi e Sinistra, accusata di “ambiguità” dopo il 7 ottobre.
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