Washington continua a piangere la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg: uno dei nove giudici della Corte suprema degli Stati Uniti. Era in carica da 27 anni, nominata a vita – come prevede la Costituzione americana – dal presidente democratico Bill Clinton. Aveva 87 anni ed era seriamente malata da tempo: ma non ha mai preso in considerazione le dimissioni (neppure quando Barack Obama ne aveva discretamente sondato la disponibilità ai fini di un ricambio pilotato nel campo democratico).
“RBG” – ebrea newyorchese, laureata ad Harvard, giurista e magistrato, attivista dei diritti civili su ogni fronte, seconda justice “rosa” della storia – era considerata il presidio dell’ala più liberal dei democratici in un’Alta Corte oggi presieduta da un chief justice relativamente giovane e di orientamento conservatore: il 65enne John Roberts, nominato nel 2005 dal presidente repubblicano G.W. Bush. Al suo fianco, in questo momento, siedono un associate justice nominato da Bush Sr (Clarence Thomas, unico afro e conservatore); uno da Clinton (Stephen Breyer, progressista californiano); un secondo indicato da Bush Jr (Samuel Alito, considerato il giudice più “a destra”); due da Barack Obama (Sonia Sotomayor ed Elena Kagan: entrambe newyorchesi come “RBG”, la prima figlia di immigrati portoricani, la seconda israelita); e infine due designati da Donald Trump. Il quale ha segnato anche la storia bicentenaria della “Scotus”, nome in codice della Corte. La Casa Bianca ha visto inizialmente bocciato, nel 2017 in Senato, il nome di Neil Gorsuch e ha dovuto forzare la sua approvazione con una maggioranza non qualificata. Ha dato in seguito la toga di justice a Brett Kavanaugh, con un curriculum di magistrato e studioso particolarmente chiuso sui dossier sensibili come gender e ambiente.
Benché l’indipendenza della Corte Suprema di Washington sia tradizionalmente connotata da una trasversalità non scritta di provenienza dalle stesse school of law della East Coast (in questo momento 4 giudici vengono da Harvard e 4 da Yale), l’alchimia nelle decisioni più politicamente esposte è sempre tanto complessa quanto decisivo è l’impatto su funzionamento della democrazia americana. E anche se gli osservatori attribuivano ultimamente un peso “5 a 4” del fronte conservatore, “Scotus” si è trovata a scontrarsi frontalmente con Trump non diversamente che con i predecessori.
L’ultimo caso, a metà luglio, ha visto la Corte sentenziare che il Presidente in carica non può opporsi alla richiesta di esibizione della sua situazione finanziaria in un’inchiesta fiscale aperta dagli attorney di New York. Esemplare la dinamica: il verdetto è stato firmato personalmente dal Chief Roberts, con il voto favorevole compatto del blocco dem-rosa (con “RBG”) ma anche dei “trumpiani” Gorsuch e Kavanugh. Contrari invece Thomas e Alito. Una pronuncia collegata – con esito fotocopia – ha tuttavia stabilito che per il momento l’accesso ai documenti sarà limitato.
La stampa liberal ha naturalmente inneggiato a una sentenza epocale: confrontabile a quelle che obbligarono Richard Nixon a desecretare le registrazioni dei colloqui alla Casa Bianca durante la crisi del Watergate; oppure Clinton a lasciar esibire le prove nel caso Levinsky. Ma in concreto è ancora dubbio che il fiscalgate possa turbare le ultime settimane della campagna presidenziale. La notizia della morte di “RBG” è invece deflagrata subito attorno alla sua successione.
È evidente che Trump vorrebbe esercitare immediatamente il suo potere costituzionale di designazione (la Casa Bianca, fra le voci di aggravamento della salute di “RBG”, aveva già fatto trapelare l’esistenza di una long list di pre-candidature). Trump – anche se non rieletto – resterà formalmente in carica fino al 20 gennaio 2021. E in ogni caso ogni sua eventuale indicazione passerebbe al vaglio del Congresso. Che però è esso stesso oggetto di rinnovo elettorale il 3 novembre prossimo (l’intera Camera e un terzo del Senato). I democratici sono tuttavia già scatenati, agitando lo “spettro” di una Corte Suprema “6 + 3”, per un terzo composta di “trumpiani a vita”, anche se magari con Joe Biden alla Casa Bianca. I dem hanno comunque dalla loro un precedente vicino e significativo.
Nel febbraio 2016, nove mesi prima delle presidenziali poi vinte da Trump, morì improvvisamente il justice Antonin Scalia. Un mese dopo il presidente Obama fece il nome del successore, Merrick Garland. Sarebbe stata la sua terza scelta (la quarta se fosse riuscito a convincere “RBG” a farsi da parte). E con il progressista Garland al posto del conservatore Scalia (designato da Ronald Reagan) i dem avrebbero strutturalmente ribilanciato “a sinistra” Scotus. Ma i senatori repubblicani si rifiutarono di scrutinare la designazione della Casa Bianca, anzitutto perché Obama era alla fine del suo doppio mandato. Ora le parti sono rovesciate: ma Trump non è certo il presidente che si lasci condizionare dalle prassi costituzionali del passato. Tanto che già nella giornata di ieri è cominciato a circolare il nome della possibile candidata della Casa Bianca: Amy Coney Barrett, giurista formatasi alla Notre Dame University, il più titolato ateneo cattolico degli Usa. La 48enne Barrett – oggi magistrato d’appello nel Settimo Circuito (Illinois, Indiana e Wisconsin) – ha sette figli, di cui due adottati ad Haiti. Allieva di Scalia, è un’esperta di diritto civile e costituzionale. È nota, fra l’altro, per le sue posizioni pro-life in materia di aborto.