“Franca, ma non hai visto cosa pianifica di nuovo la tua piccola Italia sull’energia? Ma veramente volete tornare al nucleare?”. Mi apostrofava così una settimana fa, tra il divertito e l’allibito, Jones, il collega californiano tutto dreamin & renewables, aprendo la porta dell’ufficio e lanciandomi sul pc un foglio con su stampata la notizia del Financial Times. Il titolo è inequivocabile: “Meloni seeks to bring nuclear power back to Italy”.



Prima ancora di leggere il pezzo gli rispondo subito: “I doubt it…”. Mi basta il titolo per capire che non può essere farina del suo sacco (della Premier, intendo). Cerco quindi di risolvere il caso e leggo l’articolo.

Come supponevo: l’idea poco correct di far rientrare dalla porta quel che due incidenti nucleari e due referendum hanno buttato dalla finestra, è del suo ministro dell’Ambiente e dell’Energia Pichetto Fratin. Il Financial Times cita nuove leggi per reintrodurre il nucleare in Italia in 10 anni, usando gli Small Modular Reactors (SMR). Poi rigira il coltello nella (mia) piaga, ricordando i due referendum post-Chernobyl e post-Fukushima (al primo, ho preso il volo per gli States, al secondo ero a lavorare a Bruxelles).



Ai rilievi del giornalista, il ministro risponde citando i rischi di dipendenza strategica e di accettabilità sociale delle rinnovabili: i pannelli solari sono tutti cinesi e le pale eoliche non le vuole nessuno a casa propria. A dimostrazione, ho letto che la nuova Governatrice della Sardegna intende bloccare la gran parte dei 57 GWe di nuove rinnovabili che si vorrebbero realizzare sull’isola. L’articolo riferisce di un 11% di consumi elettrici totali al 2050 soddisfabili col nucleare. Indago meglio.

Scopro così che il Governo, attraverso il suo Ministro competente, il 12 luglio ha inviato alla Commissione europea l’aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima al 2030, il famoso Pniec, dove per la prima volta si cita esplicitamente il nucleare e anzi si includono i risultati di un’analisi di scenario.



Le pagine del dossier sono tante (490), ma la sera faccio fatica a prender sonno, quindi lo sfoglio tutto (vi lascio i numeri di figure e tabelle tra parentesi, nel caso vogliate farvi un’idea da voi).

La prima sorpresa non è per il nucleare, ma per l’altissimo tasso di ambizione di un simile piano. L’Italia dovrebbe ridurre le proprie emissioni di gas serra dalle attuali 413 MtCO2

La Tab.10 rappresenta la sintesi delle sfide epocali che ci attenderebbero, da qui al 2030. La produzione elettrica lorda delle Fer dovrebbe passare dagli attuali 10 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) a 19 (+90%). I consumi finali da Fer per riscaldamento e raffrescamento, da 10 a 17 Mtep (+70%). Le rinnovabili nei trasporti dovrebbero passare da 1,5 Mtep a 6 (+400%). Contemporaneamente, i consumi finali lordi complessivi di energia dovrebbero diminuire dagli attuali 117 Mtep a 109 (-7%). In questo modo la combinazione tra aumento delle Fer e diminuzione dei fabbisogni porterebbe il ruolo delle rinnovabili dall’attuale 19% (2022) al 39% (2030).

È realistico uno scenario simile? Per avere un’idea circa il tasso di credibilità, è sufficiente osservare i 12 anni precedenti: dal 2010 al 2022, il ruolo delle Fer è passato dal 13% al 19%. Ora, in 8 anni, dovremmo accelerare dal 19% al 39%, ossia aumentare la performance annuale nazionale del 500%. La Fig. 9 mostra plasticamente l’ambizione (o la velleità) di una simile sfida.

In termini di produzione elettrica, si tratta di un incremento significativo delle Fer, dai 100 TWh attuali a 237 TWh nel 2030 (+137%), sino a 302 TWh nel 2040 (Fig. 95).

Nonostante tutti questi sforzi, la dipendenza energetica risulterà ancora elevatissima: dall’attuale 74,5% si scenderebbe a un poco rassicurante 68% al 2040 (Tab. 77).

Il piano prevede anche azioni contrarie al semplice buon senso: si intende ridurre del 70% le importazioni di elettricità al 2040 (da 3700 a 1100 ktep – Tab. 91), nonostante si tratti quasi interamente di energia elettrica “green”, prodotta dalle centrali nucleari francesi e acquistata a prezzi molto convenienti.

Arrivo al nucleare, dunque. Si parte soft al 2035 con i primi 400MWe, per poi aumentare a 8GWe al 2050, con un mix di SMR, Advanced Modular Reactors e altri primi 400MWe, a fusione stavolta. L’11% di quota nucleare in realtà è un dato conservativo: se si lascia briglia sciolta al software di simulazione e di ottimizzazione, l’atomo arriva oltre il 20%.

Qual è la convenienza dello scenario con il nucleare, rispetto a quello senza? Non sembra elevatissima, anche se i 17 miliardi di euro risparmiati tra il 2035 e il 2050 farebbero comunque comodo, specie di questi tempi. Altri hanno stimato cifre assai superiori, valutando scenari simili.

La stessa domanda va posta qui: è realistico uno scenario di questo tipo? Sì, se l’Italia saprà fare i compiti a casa, preparando per tempo e in modo adeguato le sue infrastrutture e le proprie scelte politiche. No, se prima o poi non considererà anche i grandi reattori. Come già hanno pensato di fare una dozzina di Paesi Ue.

Saltando da una pagina web all’altra, poi, trovo il primo appello anti-nuke in risposta al Pniec. Lo firmano in 100: dagli immancabili Presidenti di Legambiente e Greenpeace Italia e i telegenici Tozzi e Armaroli, ai sorprendenti Luigi Ciotti di Libera, il presidente di Acli, quello di Arci, Carlin Petrini di Slow Food e Jacopo Fo figlio di Dario, tutti evidentemente divenuti in breve profondi conoscitori dell’atomo e dei suoi segreti.

Lo nascondono sotto un titolo che pare innocuo, “100% rinnovabili network”. Ma invece di parlare di rinnovabili e di fare qualche commento convincente sul realismo di un piano visionario come il Pniec e il suo 90% rinnovabile, si scagliano sul 10% nucleare. Com’era quella storia della pagliuzza e della trave?

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