Oggi il ministro Urso insieme ad altri esponenti dell’esecutivo sarà insieme ai sindacati davanti ai cancelli della Portovesme. Il gruppo Glencore che possiede l’unico impianto attivo di produzione di zinco e piombo in Italia ha deciso di fermare la produzione senza nemmeno attendere le valutazioni del Ministero. La produzione dell’impianto italiano non è più competitiva, come spiegano anche i sindacati, a causa degli alti costi energetici dell’Italia; produrre in Spagna o in Germania costa un quarto o di meno che in Italia sia per i minori costi dell’elettricità, sia, come nel caso della Germania, per i contributi pubblici.
Quanto sta accadendo in questi giorni è solo l’ultimo segnale di una questione molto più diffusa. Tutta la chimica e tutti i comparti industriali energivori, la base di ogni sistema industriale avanzato, sono messi fuorigioco da bollette che nessuna efficienza o nessuna creatività imprenditoriale può compensare. Se la stessa produzione in Spagna costa un quarto di quella italiana l’unico esito è la chiusura dell’impianto italiano tanto più in una fase geopolitica caotica come quella attuale.
Il problema di fondo è che l’Italia non riesce a pensare, prima ancora che a fare, fuori da alcuni schemi di transizione energetica e anche di rapporti internazionali in cui ha scelto di rimanere. Assumiamo anche che non ci sia alcun futuro al di fuori di una decarbonizzazione assoluta, delle rinnovabili, dei sistemi di accumulo di energia e in un futuro del nucleare. Assumiamo anche che nonostante questo schema oggi non possa stare in piedi economicamente, per via dei costi delle batterie e della disponibilità di materie prime, lo possa essere in futuro; anche in questo caso nonostante tutte le stime di riduzione dei costi delle rinnovabili siano state smentite. Ciò che emerge è che i tempi della transizione non sono compatibili con la sopravvivenza del sistema industriale italiano; lo strumento dei “sussidi pubblici” è un’arma spuntata perché i bilanci pubblici oggi sono in cima alle preoccupazioni degli investitori.
Non c’è soluzione al problema di Portovesme a meno di immaginare che l’Italia “metta le mani” su forniture di gas a basso costo nel breve termine e per un periodo di tempo sufficientemente lungo. All’inizio degli anni 2000 l’Italia produceva gas sufficiente per soddisfare un quarto della domanda italiana; oggi invece la produzione italiana soddisfa circa il 5%. Il gas non si è “esaurito”, semplicemente si è interrotta qualsiasi attività di estrazione per ragioni politiche e perché il sistema non percepisce alcuna urgenza che possa in qualche modo alleviare la burocrazia. In questi giorni Trump intima all’Europa di ridurre il deficit commerciale comprando gas americano. In questo caso il gas americano arriverebbe in Europa, dopo i costi di liquefazione, trasporto e rigassificazione, a prezzi che sono il triplo di quelli di partenza. Per quel gas competono non solo altri Paesi europei ma tutta l’Asia. L’Italia dovrebbe presidiare l’offerta che sta dall’altra parte del Mediterraneo e in particolare in Libia, ma è tutto fermo e non si percepisce alcuna urgenza, né alcuna disponibilità a “scendere in campo” da protagonisti.
Il problema energetico italiano non si risolverà da solo, “naturalmente”, perché la situazione geopolitica non tornerà quella del 2020. Non saranno neanche gli altri, né in Europa, né fuori, a risolvercelo perché, in questa fase di guerre commerciali, il tema di fondo non è la cooperazione ma la competizione. Ciascuno compete con ogni mezzo possibile per assicurare all’industria nazionale un posto nei commerci globali mentre tutti cercano disperatamente di difendere la manifattura da dazi e guerre.
Non si vede una soluzione al problema dell’Italia perché l’Italia non riesce a concepire e a concepirsi nel mondo che si è aperto dopo l’invasione dell’Ucraina e dopo il cambio di marcia degli Stati Uniti. La soluzione del problema in Italia è, probabilmente, demandata all'”Europa” in cui però sono i singoli Stati ad agire, ognuno come può; è una situazione destinata a continuare perché nessuno vuole sacrificare il certo, pensiamo alla Spagna, per l’incerto di un’Europa disfunzionale al prezzo di rischiare la fine della propria industria.
Oggi il Governo sarà davanti ai cancelli della Portovesme, ma senza un cambio di marcia le trasferte sono destinate a moltiplicarsi.
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