La decisione del Governo italiano di vietare l’installazione di impianti fotovoltaici a terra nei terreni a uso agricolo ha sollevato un’ondata di polemiche. Secondo le critiche, lo stop da un lato ridurrebbe le potenzialità di espansione delle rinnovabili dell’Italia e, dall’altro, nel lungo termine impedirebbe al Paese di beneficiare di un abbassamento dei prezzi dell’elettricità.



La questione di fondo è che lo sviluppo “industriale” dei campi fotovoltaici, cioè con dimensioni appetibili per i grandi gruppi, consuma suolo. Il consumo di suolo in un Paese piccolo, con poche pianure e densamente abitato come l’Italia comporta criticità “estetiche”. In secondo luogo, impatta il settore agricolo sia sottraendo campi potenzialmente coltivabili, sia imprimendo un aumento dei prezzi dei terreni; i prezzi dei prodotti agricoli non potranno mai essere tanto appetibili quanto quelli dell’energia elettrica. Se ogni terreno è potenzialmente utilizzabile per un campo fotovoltaico, oggi o domani, l’aumento dei prezzi non può essere circoscritto; non importa che i pannelli solari occupino solo l’1% dei terreni.



L’espansione della capacità solare in Italia negli ultimi 18 mesi, dall’inizio della crisi energetica e complice il Superbonus 110%, è stata notevole (+20% nel 2023), ma si è concentrata su impianti di piccola dimensione tendenzialmente sui tetti delle case private. Per le grandi utility e per i grandi produttori rinnovabili questa non è una dimensione appetibile. Il solare rimane comunque la grande speranza “rinnovabile” dell’Italia perché la capacità eolica, dato l’incremento del costo delle turbine, non è redditizia con gli incentivi che il Governo dovrebbe approvare. Servirebbero incentivi superiori a 100 euro a megawattora che però impattano il deficit e la spesa pubblica.



Al fondo della questione, forse il vero “scandalo” è la scoperta che le rinnovabili non sono esenti da criticità ambientali ed economiche. Il consumo di suolo delle rinnovabili è un multiplo delle tecnologie tradizionali. I calcoli sulla convenienza della produzione elettrica intermittente spesso non includono una criticità ineludibile: le rinnovabili esigono il mantenimento di una struttura sostitutiva che intervenga quando non c’è il sole o il vento. Il costo della stabilità delle forniture energetiche è allocato arbitrariamente sugli altri settori. Più le rinnovabili si espandono, più sale la domanda elettrica, maggiore deve essere è la dimensione degli impianti che fanno da backup.

C’è, in realtà, un caso di successo in Europa. La Spagna è riuscita a riportare i prezzi dell’elettricità a livelli molto simili a quelli precedenti la crisi anche grazie allo sviluppo delle rinnovabili. La densità abitativa del Paese iberico è meno della metà di quella italiana e questo riduce le criticità che le rinnovabili hanno sul territorio. La seconda ragione di questo caso di successo è che la Spagna produce circa un quinto della sua elettricità con il nucleare che l’Italia non ha e che è costretta a sostituire con il gas a prescindere dal suo costo a meno di imporre black-out. Lo sviluppo delle rinnovabili senza una base di produzione elettrica costante espone l’Italia a una volatilità dei prezzi dell’elettricità che non è sostenibile per l’industria. Questo è vero a prescindere dalla capacità rinnovabile installata. Quando non c’è il sole, o perché piove o perché è notte, la produzione è zero anche se l’Italia fosse ricoperta dalle Alpi alla Sicilia di pannelli solari.

L’urgenza per l’Italia, fino all’arrivo del nucleare di nuova generazione, è trovare forniture di gas stabili e a basso costo. Per i prossimi dieci anni, almeno, questa è la prospettiva.

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