La siderurgia italiana come sta? Una buona occasione per capirlo è stata l’assemblea annuale di “Federacciai”, l’associazione confindustriale che rappresenta tutti (o quasi) gli imprenditori siderurgici italiani.

Dalla bella relazione del presidente Banzato (patron di Acciaierie Venete) e dalla ricca documentazione che l’ha accompagnata, ricaviamo un quadro non del tutto negativo. La produzione di acciaio nei primi otto mesi del 2020 si è ridotta in Italia del 17,0% rispetto allo stesso periodo del 2019, ma in Francia la riduzione è stata del 27,6%, in Germania del 16,5% e in Spagna del 26,9%. Si ricorderà che la Germania, nel periodo più acuto del lockdown ha ridotto la propria produzione siderurgica di circa il 10%, mentre negli altri Pesi dell’Ue (Italia compresa) la riduzione è stata assai maggiore, come si è rilevato dal consumo di energia elettrica. Tutto ciò significa che la nostra industria, appena si sono create le condizioni per mandare a regime gli impianti, ha saputo reagire velocemente al mercato. Se avessimo avuto uguale reattività in tutti gli impianti (così non è stato a Taranto e Piombino, per citare due esempi macro), avremmo registrato una performance forse superiore a quella della Germania, recuperando anche qualche percentuale di market share.



Sono segnali molto importanti per il futuro; la resilienza dimostrata dal settore è un valore formidabile che deve spingere il decisore politico a non perdere ulteriore tempo per dare alla siderurgia italiana ogni possibile strumento che la renda ancora più competitiva. Finora, purtroppo, sono state attivate misure sporadiche, generiche, scoordinate; la “politica di settore” più volte annunciata dallo stesso Ministro Patuanelli, è rimasta a oggi lettera morta. Federacciai, con la relazione del suo Presidente, rinnova la richiesta di “un tavolo dove si possa discutere apertamente e con franchezza, trovare soluzioni che aiutino il settore…”. E ancora più avanti a proposito del futuro di Taranto “… ribadisco la disponibilità delle acciaierie italiane a sedersi intorno ad un tavolo e a discutere … di produzione di preridotto e HBI a Taranto”. A oggi la risposta non è pervenuta.



È evidente che la politica industriale non è nel DNA di questo Governo e spiace molto dover fare questa constatazione perché era legittimo ritenere che il Partito democratico (forza politica che dovrebbe essere vicina ai temi del lavoro e della produzione) avrebbe dato un impulso in questa direzione; impulso che a oggi non si vede.

Per avere una conferma di questa amara constatazione basta osservare la gestione delle “criticità siderurgiche” del nostro Paese, tra di loro certamente diverse, ma gestite in modo avulso, senza un filo comune, senza indirizzi che aiutino a comprendere ciò che realmente può interessare al Paese. Piombino, Trieste, Taranto, Terni, ma anche Cornigliano e le acciaierie del Nord, ognuno di questi centri siderurgici vive una storia a sé. La presenza del Governo in queste realtà è caratterizzata spesso dall’improvvisazione: il piano industriale di Piombino è discusso in pubblica assemblea, ma per Taranto si naviga nelle segrete stanze e non si coinvolgono neppure le rappresentanze dei lavoratori e delle istituzioni territoriali.



I futuri assetti proprietari sembrano una variabile indifferente, dimenticando che ancora per molto tempo la produzione di acciaio (soprattutto se di qualità come gran parte di quello prodotto in Italia) avrà un peso importante nella catena del valore. Per la “Acciai Speciali Terni”, messa in vendita dai tedeschi di Thyssenkrupp, si gongola perché sembra ci siano oltre 10 manifestazioni di interesse, fra le quali anche di imprenditori italiani, dimenticando che quegli stabilimenti producono acciai speciali, un prodotto di grande valore che dovrebbe essere sottoposto ai vincoli della “Golden Power” come abitualmente fanno i Governi d’oltralpe. La stessa cosa vale per Piombino e Ilva attualmente affidate a due tra i maggiori imprenditori mondiali che si stanno dimostrando poco “sensibili” agli interessi italiani.

Tutto questo non sembra interessare il Governo che, invece, si dibatte tra immaginifici piani industriali come quello presentato nei capannoni di Piombino alla presenza del Governo, dei sindacati e ogni altra istituzione interessata alle imminenti elezioni regionali, oppure in faticosi e perenni negoziati che si sviluppano nelle maggiori capitali europee (e non solo!) facendo immaginare che si stia negoziando l’acquisizione della General Electric quando invece più modestamente si sta cercando di convincere (in ginocchio?) il buon Mittal ad accettare di stare a Taranto. Uno spettacolo che francamente si sarebbe preferito non vedere.

Eppure dagli industriali qualche importante e coraggioso segnale è pure arrivato. Nella stessa relazione che richiamavo all’inizio di questo intervento, il Presidente Banzato ha fatto affermazioni molto importanti che certamente non sono opinioni personali, ma condivise dai maggiori siderurgici (curiosità: ad ascoltarlo in seconda fila c’era anche l’Ad di Arcelor Mittal Italia, la dottoressa Morselli che è pure vicepresidente di Federacciai). In un passaggio si afferma che “c’è da parte nostra la consapevolezza che ci sono momenti i cui se si considerano strategici certi assets e se l’effetto combinato di perdite ed investimenti per il rilancio sono insostenibili per un investitore privato, il ritorno dello Stato è possibile e necessario. … La presenza dello Stato deve servire per proteggere il turnaround… Uno Stato traghettatore”. Sono affermazioni non solo coraggiose, ma soprattutto responsabili, di chi ha a cuore il futuro della nostra industria, di chi sa cosa vuol dire fare sana politica industriale.

Sorprende che nessuno nel Governo e nell’opposizione abbia fin qui saputo dimostrare tanta lungimiranza. C’è da augurarsi che il ritardo venga recuperato rapidamente, altrimenti il declino della nostra industria e del Paese sarà inarrestabile con le conseguenze che è superfluo ricordare.

Leggi anche

ILVA/ Un piano, una proposta e i nodi da sciogliere per il GovernoILVA/ E quel ruolo dello Stato che non smentisce la dottrina DraghiDALL'ALITALIA A WHIRLPOOL/ Tutte le crisi aziendali che Conte ha lasciato in eredità