Caro direttore,
fra pochi giorni sarà un anno che la Federal Aviation Authority ha decretato la messa a terra di tutti i Boeing 737 Max dopo due gravi incidenti e 346 morti. La Boeing – un gruppo industriale fra i più grandi e longevi su scala globale – ha già subìto danni ingenti.

Il bilancio 2019 si è chiuso in rosso per la prima volta in più di vent’anni e il titolo ha perduto a Wall Street un terzo del suo valore e la fama di stock a basso rischio e cedola sicura. Sono 400 i velivoli pronti per la consegna bloccati nei parcheggi per i dipendenti del quartier generale di Seattle. Molte compagnie di tutto il mondo hanno già messo in discussione non solo il ritiro, ma anche il pagamento e la conferma di nuovi ordini. Le linee di produzione del 737 Max si sono fermate a fine anno: migliaia di posti di lavoro sono a rischio.



Poco prima di Natale il board ha deciso la rimozione del Ceo veterano, Dennis Muilenburg: gli è stato fatale – si è potuto leggere – un ultimo e troppo rude tentativo di lobbying contro la FAA. Ma neppure la capacità di pressione politico-mediatica del colosso dell’aviazione (competitor globale di Airbus e fornitore storico delle aviazioni militari di mezzo mondo) ha finora avuto ragione del pessimismo della ragione, di fronte ai dubbi ancora forti sulla possibilità di restituire al 737 Max piena affidabilità tecnica. Neppure un presidente-businessman come Donald Trump, paladino di America First, si è assunto finora la responsabilità di autorizzare la ripresa dei voli.



media americani e internazionali, nel frattempo, non hanno mai cessato di scavare sui “misteri” letali del 737 Max. E hanno sempre pubblicato tutto. È stato anche grazie alla loro pressione di “cani da guardia” della democrazia e del mercato se dopo molti mesi un manager della Boeing ha testimoniato al Congresso di aver avvertito i suoi vertici aziendali di gravi rischi per il 737 Max sia prima che dopo crash in Indonesia ed Etiopia.

Dopo cinque giorni di allarmismo in Italia per l’emergenza-coronavirus – alimentato anche dalla totale débâcle del governo ad affrontarla – lo stesso governo ha ora decretato l’ottimismo della volontà. Il premier in persona ha ordinato di “abbassare i toni” ai vertici della tv di Stato (duopolista con il gruppo controllato dal leader di un partito d’opposizione forse in procinto di entrare nella maggioranza).



Solo per la cronaca ancora pochi giorni fa il ministro dell’Economia esercitava pressioni sull’amministratore delegato Rai nominato dalla maggioranza precedente: ciò – secondo rumor mai smentiti – al fine principale di agevolare la sostituzione dei direttori delle testate giornalistiche (naturalmente per ragioni diverse dall’emergenza coronavirus ancora di là da venire). E questo nonostante la vigilanza sull’informazione pubblica sia di competenza di una commissione parlamentare.

Il sottosegretario alla Presidenza con delega all’Editoria ha intanto lanciato una fatwa nazionale contro la fake news, raccomandando “a tutti i cittadini, di informarsi e a condividere esclusivamente notizie e aggiornamenti che provengono da fonti e da siti istituzionali relativi a governo, Regioni, enti locali, nonché da testate giornalistiche nazionali, locali e da agenzie di stampa”. Premesso che nelle prime 48 ore dell’emergenza il sito www.salute.gov ha funzionato poco e male, su quali basi – tecniche e legali – la Presidenza del Consiglio stabilisce quali sono i provider di not-fake news?

Sul Sussidiario abbiamo già segnalato la potenziale pericolosità democratica – in particolare per la libertà di espressione del pensiero e stampa tutelata dall’articolo 21 della Costituzione – di alcune affermazioni recenti di Andrea Martella. L’Italia ha già conosciuto una lunga era in cui la Presidenza del Consiglio decideva autoritativamente cosa e come gli italiani dovevano o non dovevano leggere sui giornali.

A fine febbraio 2020, d’altra parte, molti italiani allarmati per il coronavirus avranno avuto ben poca nozione di una notizia veramente certa riguardante i rapporti fra il Dipartimento Editoria di Palazzo Chigi e i media nazionali. Proprio mercoledì sera il Senato ha approvato con voto di fiducia il decreto “milleproroghe”, contenente anche un sostanzioso pacchetto di provvidenze all’editoria giornalistica, riguardo in particolare le convenzioni con le agenzie di stampa. Il pacchetto è stato personalmente predisposto da Martella: lo stesso che nelle stesse ore invocava “l’ottimismo della volontà” mentre il suo premier andava pericolosamente in bilico per l’accusa di eccessivo mediatismo allarmista.

Non da ultimo, la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta sulla diffusione di un “audio-fake” che domenica avrebbe lanciato viralmente l’allarme quarantena per il Comune di Milano. È un messaggio che avrebbe provocato la corsa ai supermercati (di per sé positiva per i fatturati della grande distribuzione organizzata e dell’intera filiera a monte, per le quali ora si agita l’allarme-recessione, ndr). Nessuno dubita dell’esistenza del ben noto reato di “procurato allarme” (articolo 658 del Codice penale). Però la magistratura che alza il tiro sui social e sull’allarmismo mediatico è la stessa che – martedì sera con voto di fiducia alla Camera – si è vista mettere in mano dal governo un decreto-intercettazioni che la autorizza a investigazioni tecnologiche più intense con l’uso dei trojan. Anche di questa notizia non-fake – peraltro in pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – si è parlato molto poco sui media richiamati dal governo a una non meglio definita “responsabilità” nella presunta crisi infodemica nel Paese.

Fra le centinaia di italiani contagiati più o meno pericolosamente dal coronavirus appare rientrare anche la loro vita democratica. Resta tuttavia il contrario di un fake la fiducia che tutti gli italiani ripongono per definizione nell’autorità di garanzia ultima del Presidente della Repubblica.

La fiducia nel governo in carica appare invece virtualmente azzerata (naturalmente al netto di qualche sondaggio “responsabile” pubblicato da qualche giornale “responsabile”). Mentre quella degli elettori nel Parlamento è formalmente valida per cinque anni a partire dal 4 marzo 2018. A meno dello scioglimento anticipato delle Camere, previsto e disciplinato dalla Costituzione.