A cavallo di Pasqua un manipolo di prestigiosi accademici-opinionisti è parso imbastire su alcune grandi testate una campagna di risposta politico-culturale – se non proprio di “reazione” – alla catena di incidenti nei grandi atenei sul caso Israele. Fra gli altri: Gustavo Zagrebelsky e Angelo Panebianco (entrambi ripresi da un editoriale di Paolo Mieli), Ernesto Galli della Loggia, Sabino Cassese e Luca Ricolfi.
Il periodo festivo scelto per le uscite – assieme al tono cauto e problematico comune a interventi non sempre sovrapponibili – è stato in sé indicativo di quanto sia stretto il sentiero di una “controffensiva” che pare avere due obiettivi.
Il primo è riportare un certo “ordine” – almeno di lettura culturale della situazione – negli atenei (ma stracciando velocemente l’iconica fotocronaca del Senato accademico di Torino occupato dagli studenti e teatro di un clamoroso diktat anti-Israele al rettore). Una seconda finalità trasversale sembra quella di preservare l’allerta “assoluto” sull’antisemitismo, senza che esso venga minacciato dalle crescenti contestazioni “antisioniste” allo Stato ebraico dopo i 30mila morti palestinesi di Gaza, seguiti ai 1.200 morti israeliani del 7 ottobre.
Quello su cui si stanno muovendo polemisti pur consumati appare però un terreno accidentato forse quanto la Striscia. Il “contesto” delle università accese dal caso Israele è infatti l’escalation politico-istituzionale fra il Governo di centrodestra e il Quirinale (“dem”), quando mancano nove settimane al voto europeo. L’esecutivo non ha avuto esitazioni a inviare le forze dell’ordine a fermare un primo corteo di studenti che a Pisa voleva portare la contestazione in “luoghi sensibili” per la comunità ebraica. Ma i “manganelli” usati dalla polizia hanno suscitato la dura reazione del presidente Mattarella, che ha direttamente ordinato al ministro Piantedosi di astenersi da ogni azione repressiva della libertà (costituzionale) di pensiero e parola dei giovani. È da allora che la contestazione anti-Israele si è propagata di ateneo in ateneo, di piazza in piazza: da Pisa a Roma e Milano (dove gli slogan “liberi” hanno fatto una vittima illustre quanto innocente: la senatrice a vita Liliana Segre, che pure ha preso per tempo le distanze dal governo Netanyahu); da Napoli – dove è stato zittito il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari – a Torino fino a ritornare a Pisa, al “santuario” laico progressista della Normale.
È su questo sfondo che il ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, è uscita alla scoperto, dichiarando l’attenzione del governo per gli sviluppi, con una mossa indiscutibile sul piano istituzionale, ma anche carica di segnali politici. Dunque, i “fuochi” anti-israeliani per il Governo non sono (più) un problema di ordine pubblico: non possono esserlo dopo il forte richiamo “semipresidenzialista” di un Quirinale “movimentista” e “libertario” (al punto da difendere negli stessi giorni anche l’“antagonista” Ilaria Salis – arrestata a Budapest con l’accusa di lesioni personali – quasi alla stregua di “prigioniera politica” di Viktor Orbán).
Le contestazioni a Israele non sono neppure una questione di politica estera: quella italiana (di competenza esclusiva del Governo) è fra le più chiare e stabili in Europa nell’allineamento agli Usa, progressivamente critici con Gerusalemme, ma senza mai deflettere nel contrasto alla minaccia terroristica dell’integralismo islamico.
L’uscita di Bernini ha confermato invece che il Governo sente il dovere di principio di monitorare università che sono per larga parte “statali”, in un Paese in cui, peraltro, l’articolo 33 della Costituzione sancisce la libertà di scienza e d’insegnamento (ribadendo per le istituzioni accademiche la generale libertà di pensiero, parola e riunione pacifica). È quindi comprensibile che un governo tacciato ogni giorno di “neofascismo” si muova con i piedi di piombo su uno scacchiere universitario storicamente dominato dalle sinistre, che ne hanno sempre rivendicato il ruolo di “baluardo democratico”. Il problema è in ogni caso delle sinistre se le “sardine democratiche” del 2024 non inneggiano più alla senatrice Segre a favore del Pd contro “l’odio delle destre”, ma contestano Israele (che ha un governo di centrodestra come l’Italia) perché starebbe “odiando” i palestinesi.
Il governo Meloni aveva provato a togliere subito dal fuoco le castagne anti-israeliane con i poliziotti: ma il Quirinale lo ha energicamente fermato. Logico che oggi Palazzo Chigi voglia segnalare soltanto una “pre–mobilitazione” del Miur. Perché il Governo dovrebbe correre in soccorso dei rettori interferendo nella loro autonomia costituzionale? Questi ultimi, dal canto loro, hanno mostrato di preferire rese senza resistenza (qualche volta vere e proprie adesioni) alle proteste degli studenti filo-palestinesi piuttosto che il ricorso a qualsivoglia “autorità” per difendere gli accordi accademici con Israele. Non sorprende quindi che anche i professori-opinionisti appaiano pensosi su questo fronte: chiaramente diffidenti dell’opzione di fare entrare un governo “nemico” nelle “loro” università.
È ancora bruciante, inoltre, il precedente dei grandi atenei americani. Fra Natale e Capodanno le rettrici di due antichi e prestigiosi campus (Penn e Harvard) sono state cacciate per non aver vietato i cortei studenteschi anti-israeliani e non aver poi adottato punizioni disciplinari: questo in nome del free speech scolpito nel Primo Emendamento alla Costituzione Usa. A intervenire con la scure – fra le perplessità imbarazzate dell’establishment culturale e mediatico liberal – sono stati i veri “padroni” delle due università: i donatori multi-milionari di istituzioni privatissime patrimonio di Harvard sfiora i 50 miliardi di dollari). E fra i grandi finanziatori delle università Usa spiccano tradizionalmente gli israeliti: fra l’altro storici sostenitori di ogni cultura “progressiva” e politically correct.
Di fronte agli slogan pro-palestinesi dopo il 7 ottobre, tuttavia, il riflesso è stato immediato, della stessa intensità di quella mostrata da Israele a Gaza: le contestazioni “antisemite” nei campus andavano stroncate e subito piegata ogni resistenza nel corpo accademico. Poco ha importato anche che l’epurazione ai vertici di atenei “dem” sia stata apertamente appoggiata da politici repubblicani (più o meno vicini a Donald Trump): il passaggio è stato anzi una conferma di quanto elevato sia oggi il credito del ri-candidato Trump – alleato storico di Netanyahu – in una comunità ebraica statunitense storicamente vicina ai “dem”.
Lo stesso presidente Biden è parso voler incassare il colpo portato dai repubblicani in un santuario “dem” come Harvard, dove si sono laureati John Kennedy e Barack Obama. Tre mesi fa, d’altronde, la controffensiva israeliana a Gaza sembrava ancora politicamente inevitabile e sopportabile per la Casa Bianca, anche all’inizio di un’insidiosa campagna presidenziale. Fosse aperto oggi il caso di Pauline Gay (l’ex rettrice di Harvard, prima donna afro) è probabile che Biden avrebbe meno remore nel prendere posizione a favore degli studenti pro-palestinesi e della libertà di contestazione nelle università. Ogni difesa “a prescindere” di Israele al 180esimo giorno di guerra sta diventando problematica e rischiosa per il presidente-ricandidato (lo ha confermato il duro intervento anti-Netanyahu da parte del capo dei senatori dem, l’israelita Chuck Schumer). E anche in tempi di emergenza-fake news, negli States resta impopolare ogni voce a favore di restrizioni alla libertà di parola.
È la stessa via stretta sulla quale – “mutatis mutandis” fra le due sponde dell’Atlantico – sembra essersi incamminato il presidente italiano, che non ha poteri – né responsabilità – di governo, ma utilizza facoltà di “esternazione” politica consolidati nella costituzione materiale. Così facendo, stavolta, sembra però rendere ancor più stretti i sentieri per i professori-opinionisti che sui grandi media di norma sostengono il Quirinale “a prescindere”. Mentre finora neppure la leader del Pd Elly Schlein – cittadina americana con padre politologo israelita liberal e un passato di campaigner con Obama e Biden – è scesa in piazza per dire che “ha ragione Mattarella”.
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