Solo lo spirito libero di Emilio Giannelli – 86enne vignettista del Corriere della Sera – ha saputo cogliere al volo il gioco politico che si è dipanato l’altra sera alla Scala attorno agli inni nazionali che hanno preceduto il Boris Godunov. Un gioco frutto verosimile di scelte calcolate, ma anche di passaggi inattesi, imprevisti, forse anche involontari.
Come nel cartoon di Giannelli, la premier Giorgia Meloni ha davvero cantato a voce piena “Fratelli d’Italia”: formalmente un omaggio protocollare al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita istituzionale accompagnato dalla first lady, la figlia Laura. Ma è altrettanto incontestabile che il titolo dell’inno italiano sia diventato da un decennio il brand politico della Meloni (e del presidente del Senato Ignazio La Russa, seduto alla Scala immediatamente a fianco di Mattarella). Un logo vincente alle ultime elezioni per quello che è oggi il primo partito italiano. Più ancora, un inno nazionale rimane un’intrinseca espressione identitaria, se non addirittura “sovranista”.
La premier ha avuto quindi molte ragioni per intonare convintamente il “suo” inno assieme al “popolo della Scala”: che pochi istanti prima aveva riservato a Mattarella un’ovazione da stadio, divenuta ormai consuetudine e usualmente interpretata come omaggio (politico) a un Presidente “democratico” da parte di una società civile milanese costantemente narrata in trincea contro Lega, Forza Italia e ora anche Fratelli d’Italia. E se il Presidente ha risposto – per la prima volta – con una gestualità “semipresidenzialista”, merita qualche nota a margine anche l’accoglienza della premier, alla sua “prima volta” alla Scala.
Platea e palchi non hanno accennato ad applausi o altro quando Meloni si è affacciata sul palco. Il brusìo della sala è però calato in un semi-silenzio che dapprincipio sembrava trasudare snobismo, ma ha poi rapidamente trasmesso un atteggiamento di fondo di attenzione forte. Centinaia di smartphone sono stati sfoderati “a salve” e mirati per lunghi minuti su un solo punto: quello dove è spuntata la premier. La person in the news, al debutto della 434esima stagione operistica della Scala-dal-1776, è stata inequivocabilmente lei.
Meloni si è subito diretta al posto assegnatole da un protocollo complesso. Si è diretta all’estremità sinistra del balcone, mentre il sindaco di Milano (il “dem” Beppe Sala, presidente della Scala) e la presidente della Commissione europea (la Ppe tedesca Ursula von der Leyen, invitata d’onore) si sono portati all’angolo destro. I due hanno visibilmente continuato in una conversazione protrattasi lungo una fitta agenda di impegni comuni nella giornata di sant’Ambrogio; e hanno ostentato distacco verso la Meloni, in attesa che Mattarella occupasse il centro del palco. Giannelli ha avuto buon gioco nel disegnare Sala, Mattarella e von der Leyen imbarazzati e infastiditi sotto la “soprano” Meloni. Nella realtà il Presidente non si è invece mostrato tale, anche se la matita mordace – e spesso informatissima – del vignettista toscano può non aver avuto completamente torto. Della presenza della premier alla prima scaligera (un auto-invito istituzionale?) si è saputo solo negli ultimi giorni: non era certamente prevista dal programma iniziale.
Chissà se il cerimoniale originario ricomprendeva anche l’esecuzione – dopo “Fratelli d’Italia” – dell’Inno alla gioia, finale della Nona sinfonia di Beethoven, adottato dall’Unione Europea come proprio inno ufficiale. È lecito dubitare che si sia trattato di un adempimento protocollare, al contrario. L’omaggio plateale a von der Leyen ha di fatto equiparato la presidente della Commissione Ue al presidente della Repubblica italiana: ciò che prometteva di stridere per definizione sul piano istituzionale. A maggior ragione presente la Meloni.
La presidente della Commissione Ue non è la più alta carica dell’Unione, che ha invece al suo vertice un presidente del Consiglio (attualmente è il belga Charles Michel, un ex premier come vuole la prassi e come invece non è mai stata von der Leyen). Quest’ultimo “presidia” stabilmente (al netto della rotazione semestrale della presidenza fra i Paesi-membri) il massimo organismo europeo: il Consiglio dei capi di Stato e di governo, fra i quali siede oggi la premier italiana. Nella governance Ue – dove il Parlamento è ancora lontano dall’esercitare sovranità effettiva – rimane questa la stanza dei bottoni dove vengono assunte le decisioni-chiave: a cominciare dalla designazione dei commissari e del loro presidente, soggetti poi a “ratifica” a Strasburgo. È nelle diverse sedi del Consiglio che si discute del Recovery Fund, del price cap al gas oppure della sanzioni alla Russia. È stato il Consiglio dei ministri dell’Interno, nelle scorse settimane, a giudicare meritevoli di attenzione e discussione le mosse del nuovo Governo italiano sul fronte migratorio: in parte contraddicendo le posizioni di Bruxelles, critiche a senso unico verso Roma.
La Scala – presieduta da Sala – aveva sicuramente piena autonomia nel decidere l’omaggio dell’inno europeo per von der Leyen immediatamente dopo l’inno italiano. Correndo però così anche tutti i rischi di una miscela pericolosa fra regole e prassi istituzionali, politica e musica. Resta il fatto che la presidente della Commissione Ue non è un capo di Stato come Mattarella (comunque presidente di una Repubblica parlamentare, non presidenziale) e neppure un capo di Governo emerso da un suffragio democratico come Meloni. La quale – assieme ai leader esecutivi degli altri 26 Paesi membri – elabora e impartisce direttive vincolanti per la Commissione.
Certo, nelle prossime settimane saranno von der Leyen, il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il Commissario Paolo Gentiloni a dare i voti “tecnocratici” alla manovra 2023 appena varata dal Governo italiano: ma in un contesto di equilibri europei sconvolto dalla crisi geopolitica (il Governo ungherese di Viktor Orbán sta tenendo in scacco l’Ue sui nuovi pacchetti di aiuti all’Ucraina). Nel frattempo la Francia di Emmanuel Macron sta faticosamente recuperando linee di comunicazione con gli Usa: che sono interrotte per la Germania e invece perfettamente riaperte per palazzo Chigi. E a quei livelli l’eurocrazia di Bruxelles è per definizione fuorigioco.
P.S.: Non è la prima volta che in occasione di una prima della Scala una partita politico-istituzionale viene giocata su uno spartito di Beethoven. Alla sua “prima prima”, nel 1999, il neo-presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi avrebbe gradito l’esecuzione di “Fratelli d’Italia” prima dell’opera. L’intero settennato di Ciampi – uno dei padri della “seconda Europa” di Maastricht – fu connotato da una riscoperta della “patria italiana”, anche se lontano da ogni sensibilità nazionalista, com’era lecito attendersi da un esponente storico della cultura politica laico-azionista. Riccardo Muti, allora direttore artistico della Scala, si mostrò subito perplesso di fronte al desideratum del Quirinale. Per sant’Ambrogio aveva scelto il Fidelio, opus maior di Beethoven in campo lirico: caratterizzato dal tema super-classico delle ragioni della libertà e della giustizia contro la tirannide, apparentemente consonanti con quelle del Risorgimento italiano. Sta di fatto che Muti non eseguì l’inno nazionale e Ciampi ne fu molto contrariato. La verità ultima sul dissidio la conosce solo Muti (che all’epoca lasciò filtrare motivazioni di esclusivo ordine artistico), così come la conosceva Ciampi. È un fatto (tutto politico-istituzionale) che l’episodio compromise le chance – non piccole – del maestro napoletano di essere nominato senatore a vita. Giorgio Napolitano, successore di Ciampi alla Presidenza, gli preferì in seguito Claudio Abbado: predecessore di Muti alla Scala, ma anche – a differenza di Muti – molto vicino alla sinistra storica italiana. L’altra sera alla Scala erano in sala due dei cinque senatori a vita di nomina presidenziale: Mario Monti – inventato e impugnato da Napolitano nel 2011 per togliere dalla scena politica il centrodestra di Silvio Berlusconi; e Liliana Segre, unica prescelta finora da Mattarella; impugnata dal centrosinistra per espellere la Lega di Matteo Salvini dalla maggioranza giallo-verde approdata al Governo del Paese dopo le elezioni 2018.
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