«Diffido a definirsi ambientalisti coloro che bloccando l’estrazione nazionale di gas sono colpevoli dell’aumento delle emissioni di CO2», sbotta Michele de Pascale Sindaco di Ravenna nel sentire denominare la sua città capitale italiana del fossile. Il primo cittadino, eletto nel 2016 a capo di una lista di centrosinistra, è reduce da incontri con il ministro Roberto Cingolani. Colloqui che, cogliendo l’enorme potenziale e know-how presenti a Ravenna, secondo la percezione del Sindaco, hanno sancito l’investitura della città quale hub nazionale per il gas, collocando al largo del littorale uno dei rigassificatori galleggianti (Fsru in gergo tecnico) di cui il Governo intende dotarsi per aumentare la capacità di rigassificazione del gas liquido che arriverà in Italia nelle gasiere dai produttori extraeuropei. «In un momento di emergenza, Ravenna c’è», afferma de Pascale, spiegando che l’unità galleggiante ravennate avrebbe una capacità di trasformazione annuale di 15 miliardi di metri cubi di gas.
Il Fsru è solo una gamba del piano di proposte che lei ha avanzato al Governo Draghi per garantire la sicurezza energetica nazionale e ridurre le emissioni?
Infatti, c’è anche il rilancio della produzione nazionale di gas in alto Adriatico, lo sviluppo del progetto Agnes costituito da un parco eolico su terraferma da 600MW, in corso di approvazione, e pannelli solari galleggianti. Un grande polo industriale come Ravenna può garantire sicurezza ed economicità degli approvvigionamenti energetici. Sin dagli anni ’60 i cittadini si sono formati una cultura diffusa su metano ed energia.
Dell’incremento delle estrazioni di gas dai giacimenti nazionali non si sente più parlare però.
Trovo infatti incredibile che non vengano sfruttate i potenziali centinaia di miliardi di metri cubi di gas che si potrebbero estrarre. Con lo stop alla produzione, in vent’anni siamo passati da un output annuale di 17 miliardi di metri cubi nel 2000 agli attuali 3 miliardi di metri cubi.
Quanta produzione aggiuntiva potremmo ricavare annualmente?
Secondo le stime dell’Eni, nell’arco di dieci anni a regime, si tornerebbe su 10-15 miliardi di metri cubi di gas. Invece di seguire la logica adottata dal resto del mondo che sfrutta i giacimenti propri ed eventualmente importa il differenziale di cui ha bisogno. Noi teniamo il gas sottoterra e lo compriamo fuori.
E poiché i giacimenti non conoscono i confini, secondo l’immagine evocativa dell’effetto granita, la prima cannuccia che giunge al fondo succhia tutto lo sciroppo: gli altri prelevano il gas che potrebbe essere nostro. Il Pitesai (ndr.il piano approvato a febbraio che indica le aree idonee dove fare ricerca, prospezione ed estrazione di idrocarburi) ha peggiorato la situazione?
È una normativa folle. Ha innalzato il limite del divieto di trivellazione fino 24-30 miglia dalla costa. Sotto le piattaforme esistenti si sviluppa un habitat naturale eccezionale; dunque le 12 miglia di aree marine off-limit si ricalcolano a partire dalle strutture già esistenti. L’alto Adriatico è completamente interdetto mentre appena al di là della linea di demarcazione delle acque territoriali ci sono i pozzi croati in piena attività. Vent’anni di errori non si risolvono in 15 giorni di lucidità.
Rivedere la normativa sulle trivellazioni?
Lo scorso autunno già nel pieno del caro-energia, ricordo di aver confidato al Ministro, senza, ammetto nessuna premonizione della catastrofe che si preparava, che quando il Piano verrà approvato Putin stapperà lo champagne. Il piano è una deriva dei passati governi. Con lo scoppio del conflitto che ha riportato la necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento e di aumentare la produzione di gas naturale sul territorio nazionale, basterebbe ripartire dalla normativa in vigore in qualsiasi paese del Nord Europa, Danimarca, Norvegia.
Ambientalmente estrarre più gas dai nostri giacimenti sarebbe una retromarcia?
Rispetto alla produzione a km zero, con l’approvvigionamento via gasdotto si generano almeno 20-30% di emissioni di gas serra in più per effetto della dispersione durante il trasporto. Nel caso di forniture di Gnl, tra liquefazione e poi riportarlo allo stato gassoso, il bilancio emissivo peggiora ulteriormente. L’obiettivo sia chiaro è la decarbonizzazione riducendo il consumo annuo dagli attuali 75miliardi di metri cubi di gas a 40-30 miliardi di metri cubi. Le tecnologie low carbon a disposizione ci sono.
A questo proposito, Ravenna è all’avanguardia nella transizione ecologica di settori industriali energivori per i quali è difficile abbattere le emissioni: petrolchimica, acciaierie, cartiere, cementifici.
Si riferisce all’impianto pilota di cattura e stoccaggio delle emissioni di C02 operativo nello stabilimento chimico Versalis e nella stazione di pompaggio di Casal Borsetti. Le emissioni vengono re-iniettare in un pozzo dismesso. Lo stoccaggio dell’anidride carbonica catturata nel sottosuolo non è però l’unico sbocco obbligato. Con il suo riutilizzo in diversi processi industriali, si apre un’economia del territorio incentrata sulla CO2 come commodity da valorizzare.
Ad ascoltare il Sindaco di Ravenna diventa chiaro che nel chiudere i rubinetti del “gas del diavolo” ci sono due opzioni. Si può scegliere la libertà penalizzando il clima, importando Gnl. Oppure scegliere la libertà e meno emissioni, rilanciando le estrazioni nazionali.
(Patrizia Feletig)
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