Sedici anni di celebrazioni, e sedici anni di errori. Se oggi in Germania non c’è un clima di “damnatio memoriae” a carico di Angela Merkel è solo perché nel dna di quel popolo, ahilui, c’è – fortissimo – il senso dell’autorità e della disciplina. Perché la lunga stagione “merkeliana” ha consegnato il Paese a una crisi complessiva profonda, quasi tagliandogli ogni radici valoriale, e rendendolo sostanzialmente passivo, fibrillatorio, incapace di reagire.
Il defenestramento dall’Esecutivo del Cancelliere Olaf Scholz dell’ormai ex ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, e degli altri rappresentanti della Fdp (non il responsabile dei Trasporti, Volker Wissing, che piuttosto che mollare la poltrona ha preferito uscire dal partito ed è stato premiato con la responsabilità della giustizia, roba che perfino in Italia avrebbe fatto gridare allo scandalo) sta portando il Paese alle elezioni anticipate.
L’appuntamento è per il 15 gennaio – chissà poi perché così tardi -, quando Scholz si presenterà al Bundestag per chiedere nuovamente la fiducia, ma è ben difficile che la ottenga. E dunque in primavera si voterà. Il che significa – non dimentichiamocelo – che la principale potenza economica dell’Eurozona (perché per quanto malconcia la Germania resta comunque leader continentale per Pil e per parametri di finanza pubblica) è di fatto tagliata fuori sia dalle schermaglie interne al precario equilibrio politico della Commissione europea Ursula 2 – costruito con lo sputo, riflettendo al quadrato le stesse ambiguità tedesche; sia dai primi approcci della stessa Berlino e di Bruxelles con la nascente amministrazione Trump-2 in America, a dispetto che si sappia già quanto chiare, e dure, siano le idee trumpiane sui rapporti con l’Europa. Alleanza di fondo sì, ma concorrenza senza quartiere. E cessate il fuoco in Ucraina, con buona pace dei gerrafondai britannici, francesi e – appunto – tedeschi.
C’è chi dice che nel dopo-Scholz ci sarà uno spazio naturale per Friedrich Merz, leader dei conservatori della Cdu/Csu, ma ogni pronostico è in realtà prematuro e soprattutto è improbabile che si possa riconfermare al centro di una qualsiasi coalizione il partito dei Verdi, clamorosamente messo in crisi dalle proteste di tutta la società civile tedesca ed europea per l’impraticabilità delle scadenze legislative finalizzate alla decarbonizzazione. D’altronde, Merz è contrario a qualsiasi collaborazione con i nazionalisti di Afd, venati come sono di neonazismo, e dunque il Paese è imballato.
Inevitabile un flashback sugli errori commessi, o almeno avallati, dall’amministrazione Merkel: la scelta di unire a doppio filo il proprio pilastro economico, l’industria dell’auto, alla Cina: dipendendone, oggi, sia per gli approvvigionamenti che per le esportazioni, senza essersi accorto di dipendere in questo modo dal proprio principale concorrente; la scelta di uscire dal nucleare, dopo il trauma di Fukushima, chiudendo ben 23 centrali, con la conseguenza di dover continuare a utilizzare il tossico carbone, e proprio nel Paese dell’ideologismo verde; la scelta di trascurare lo sviluppo dei digitale, che ha nuociuto alla Germania e all’Europa.
Che un Paese così indeciso a tutto e strategicamente confuso sia stato e tuttora sia, soprattutto attraverso la longa manus della Banca centrale europea, il più influente sulla politica economica comunitaria e dunque sull’impostazione di “austerity” che anche il nuovo Patto di stabilità declina, sia pure in maniera un po’ meno paranoidea del primo, è terrificante. È garanzia del compiersi di quel naufragio politico della costruzione europea i cui prodromi sono già sotto gli occhi di tutti. Carne da macello per un’America che Trump vuole fare “great again”. Probabilmente non ci riuscirà, il Biondo Riporto della Casa Bianca, ma di questo passo saranno le altre Grandi Potenze a diventare più piccole, molto più piccole, incominciando dalla Germania.
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