Si torna a parlare con insistenza sui giornali – ed è cosa giusta – dell’importanza dell’opzione liberale in una società che funzioni e allo stesso tempo si sottolinea quanto sia difficile incardinarne i princìpi nella vita di tutti i giorni. Grande rispetto formale da una parte (tanto che a parole possiamo ormai dirci tutti liberali) e sommo disinteresse nell’applicazione concreta.
Le spiegazioni di questo fenomeno sono tante e tutte riconducibili alla massima resa famosa da Leo Longanesi secondo il quale “La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia”. Da cui quel “Tengo famiglia” che diventa la frase più usata per giustificare ogni cedimento, grande e piccolo, al mantenimento dei migliori propositi di comportamento virtuoso.
Dal capitano di vascello con problemi economici che passa segreti militari ai russi per una mancetta (siamo pieni di debiti, ha spiegato la moglie) al parlamentare che non schioda dal seggio per la paura di perdere il lauto stipendio che altrove non prenderebbe (alterando seriamente il gioco democratico del Paese) è tutto un fiorire di allegre autoassoluzioni per stato di necessità.
Non è la libertà che manca in Italia, diceva il solito Longanesi che sull’argomento aveva capito tutto: mancano gli uomini liberi. E in effetti, messi di fronte all’alternativa libertà o garanzia gli italiani raramente scelgono la prima rifugiandosi nella più rassicurante seconda scelta. La libertà, infatti, costa cara e per averla bisogna essere disposti a pagarne il prezzo.
Va anche detto che l’intero impianto normativo nazionale – Costituzione, leggi, regolamenti – sembra costruito per indurre i cittadini a ricercare il massimo grado di garanzie e a rifuggire dalla libertà. Non è solo costosa, la libertà, in Italia, ma anche troppo pericolosa perché è così tenue il margine che protegge l’intrapresa che tutti (o quasi) rifuggono dall’azione.
Perché uno spirito liberale possa esprimersi al meglio c’è bisogno di un ambiente confidente, che non mortifichi l’iniziativa per partito preso, che sappia dare il giusto valore alle persone e riconoscerlo. Si accetta una sfida quando si ha la certezza o almeno la percezione che le regole del gioco non siano truccate, che il comportamento corretto sia apprezzato, che l’impegno sarà premiato.
In mancanza di queste premesse e di un ambiente fisico e immateriale – infrastrutture, scuole, sanità, sicurezza – che incoraggi il dispiegamento delle migliori potenzialità perché dotato delle condizioni utili a competere, sarà molto difficile che possa svilupparsi una selezione che premi il merito. Tutt’altro. Emergerà l’incosciente, l’incompetente o il protetto. Se non lo spregiudicato e il pregiudicato.
La libertà, inoltre, va a braccetto con la responsabilità. A maggiori dosi dell’una deve corrispondere un’eguale crescita della seconda. Ecco perché è viziato un sistema che consente a una delle sue parti più delicate, la magistratura, di cumulare il massimo della libertà con il massimo dell’irresponsabilità. Un sistema siffatto può essere la tomba e mai la culla di una cultura liberale.
Insomma, per costruire una nazione di uomini liberi occorre che si raffini il gusto della libertà e non lo si mortifichi. Altrimenti l’opzione liberale resterà appannaggio di un manipolo di coraggiosi che prenderà il rischio di andare controcorrente tranne poi pentirsi della scelta perché regolarmente perdente. Da dove si debba cominciare per cambiare è un problema che resta irrisolto.
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