Il 22 aprile scorso, come ogni anno, si è celebrato l’Earth Day, il giorno della Terra, ennesima ricorrenza del patetico cerimoniale ambientalista per farci sentire in colpa e devolvere un po’ di tempo e soldi alla nobile causa del salvataggio del pianeta dai cambiamenti climatici. Tre giorni prima, Greta Thunberg aveva arringato gli studenti romani: erano quattro gatti, almeno rispetto alle aspettative e al battage pubblicitario di cui il Fridaysforfuture della Capitale aveva goduto su tutti i media, manco fosse il discorso di fine anno dal Quirinale. Non lo dico io: andate a rivedervi l’edizione della sera del Tg3 del 19 aprile e ne avrete la riprova, visto che un incauto tecnico ha avuto la pessima idea di non togliere dal montato del servizio un’immagine presa da dietro al palco (stesso discorso vale per il concerto tenuto proprio per l’Earth Day sempre a Roma, destinatario di un servizio di 3 minuti per un totale di 20 spettatori). C’era più gente a una festa in onore di Icardi organizzata da Perisic e con ospite d’onore Maxi Lopez.



Il giorno prima, sempre Greta Thunberg aveva parlato al Senato della Repubblica: “Per cambiare rotta sul clima restano solo 10 anni”, era stato il suo millenaristico ammonimento. E tutti ad applaudire, ovviamente. Trattasi dello stesso arco temporale indicato da Al Gore come assolutamente non derogabile e ritardabile in quella sesquipedale idiozia che fu il suo docufilm, An inconvenient truth. Era il 2006. Siamo nel 2019. Fa caldino (oggi, mentre scrivo, a Milano nemmeno troppo), ma il Polo Nord tiene ancora botta e non ci sono frotte di pinguini spiaggiati a Coney Island, sotto la mitica ruota dove si concludeva l’avventura de I guerrieri della notte. Qualcosa non torna.



In compenso, il Congresso Usa ha appena proposto, con atto bipartisan, ulteriori incentivi e facilitazioni fiscali (leggi, aiuti di Stato) per l’auto elettrica pari a circa 11 miliardi di dollari. Da subito. Casualmente, il mercato auto Usa in marzo è crollato del 6,9%. Eh ma si sa, le mie sono le solite accuse da cinico osservatore dell’economia e della finanza, uno che non ha sogni, né ideali. Uno che, forse, non ha nemmeno mai avuto 16 anni. Forse è vero. Peccato che io, a differenza di tre quarti di quelli che si stracciano le vesti per l’ambiente, abbia il pessimo vizio di informarmi, prima di parlare. Sapete, ad esempio, cosa ha scoperto la Nasa recentemente, quando già Greta imperversava ubiqua come Barbara D’Urso? Che il ghiacciaio della Groenlandia noto ai più come The Jakobshavn sta crescendo di nuovo. Insomma, non è più a rischio scioglimento e sparizione. Nel 2012 fu lanciato l’allarme, visto che alcuni scienziati avevano scoperto come stesse ritirandosi di circa 1,8 miglia e assottigliandosi di 130 piedi all’anno. Disastro! Apocalisse! E ora? Sta tornando a crescere. Chi lo dice? L’equipe dell’ente spaziale statunitense che si è occupata del caso, raccontando con dovizia di particolari nell’ultimo numero di Nature Geoscience. Ammetto che le quattro accuse anti-establishment da Mario Giordano dell’ambiente di Greta appaiano più credibili e circostanziate scientificamente, ma dovete accontentarvi delle mie fonti poco autorevoli.



L’Earth Day, colossale macchina da soldi per associazioni ambientaliste e Onlus di varia natura, oltre che per scienziati falliti che senza l’allarme ambientale dovrebbero trovare lavoro in un McDonald’s, fu creato come ricorrenza nel 1970 e sapete cosa disse uno dei fondatori, il capo dell’organizzazione Denis Hayes? “È già troppo tardi per evitare una carestia di massa”. Eh già, perché non bastano le immagini strappalacrime di foche, pinguini e orsi polari alla ricerca di un ventilatore, occorre mettere il carico da novanta: l’immigrazione climatica causa desertificazione che non consente di trovare acqua e cibo per sfamarsi, l’esodo biblico per la sopravvivenza di masse umane con andatura patibolare. Due piccioni buonisti con un’unica fava per masochisti in cerca di redenzione pronta-cassa.

D’altronde, sempre nel 1970 e sempre per sottolineare l’importanza di dedicare un giorno alla Terra e alla sua tutela, ecco che il biologo della prestigiosa Harvard University, George Wald, sentenziò che “la civilizzazione finirà entro 15 o 30 anni, a meno che non si intervenga immediatamente per dare risposta ai problemi che l’umanità deve affrontare”. Siamo ancora qui, da un ventennio, utilizzando l’ipotesi temporale meno catastrofistica e immediata del professor Wald rispetto all’ecatombe. E siamo sempre qui a sentire le medesime cazzate. Ma non basta, signori. Perché anche il biologo dell’altrettanto autorevole Stanford University, Paul Ehrlich, volle dire la sua: “La popolazione supererà inevitabilmente e completamente qualsiasi incremento della fornitura di cibo che creeremo. Il tasso di mortalità crescerà fino ad almeno 100-200 milioni di persone all’anno. Gente, questa, che morirà di fame durante i prossimi dieci anni”. Siamo sempre nel 1970. Poi, la perla. Regalataci da quel premio Nobel mancato solo per l’infamia del destino cinico e baro che risponde al nome di Peter Gunter, professore alla North Texas State University: “Da qui ai prossimi 30 anni, entro l’anno 2000, il mondo intero, con l’eccezione dell’Europa occidentale, il Nord America e l’Australia, sarà alla fame, in stato di carestia”. Signori, merita un applauso.

A mettere in fila questa collezione di idiozie che la gente ha assorbito per un quarantennio come allarmi credibili di autorevoli accademici è stato il blogger e ricercatore Peter Baggins, in uno special che ha voluto dedicare all’Earth Day appena celebrato. Tutto verificabile, tutto riscontrabile. Ora, guardate questo grafico, il quale ci mostra come le temperature a livello globale siano salite di circa 0,4 gradi centigradi negli ultimi cento anni. Cento anni! Sapete qual è il range di crescita previsto da qui al 2100 dall’Intergovernmental Panel on Climate, il forum scientifico dell’Onu creato nel 1988 per contrastare i cambiamenti climatici? Varia da un minimo di 1,4 gradi centigradi in più fino a un massimo da 5,8 gradi, il tutto nell’arco di 81 anni. Nei 100 anni precedenti, nonostante le idiozie partorite dagli scienziati poc’anzi citati, le temperature sono salite di 0,4 gradi.

E attenzione, senza tutti i protocolli e le politiche per limitazione delle emissioni che, in un modo o nell’altro, in un Paese più che nell’altro, da allora a oggi sono entrate in vigore. Per non parlare del cambio, sacrosanto, di stile di vita consumistica, dalla raccolta differenziata alla lotta agli sprechi all’uso di fonti alternative, dove possibile. Vi paiono stime credibili? E a proposito di fame da desertificazione, alternativa pseudo-scientifica ai lager libici come giustificazione per l’immigrazione di massa, guardate questa foto da satellite. Anche qui mi scuserete per la fonte poco autorevole utilizzata, ovvero uno studio sempre della Nasa riportato dalla rivista Nature Climate Change. Ci mostra, alla faccia delle profezia di morte di massa per fame, come la superficie verde – ovvero con vegetazione – a livello globale sia aumentata negli ultimi 35 anni. E in maniera anche consistente, soprattutto se posta a confronto con le poche aree – e ben localizzate – che invece hanno realmente patito processi di desertificazione, cui è sacrosanto porre in qualche modo rimedio. Senza, però, lanciarsi in proclami apocalittici globali.

Lo studio ci parla, a partire dal 2000, di qualcosa come 2 milioni di miglia quadrate in più di vegetazione e aree verdi al mondo su base annua, ovvero piante e alberi che in totale rappresentano due volte e mezza la superficie continentale degli Stati Uniti. Capito perché la carestia di massa preconizzata dai fondatori dell’Earth Day non è mai avvenuta e mai avverrà, grazie a Dio? Per finire, poi, il mio grafico preferito. Questo qui, il quale ci mostra che, in palese contrasto con la narrativa ambientalista e su dati ufficiali dell’International Disaster Database, le morti dovute a eventi climatici a livello globale sono drasticamente calate negli ultimi 70 anni.

E attenzione, il calo in numero assoluto di decessi è occorso in contemporanea con un aumento di quattro volte della popolazione mondiale nel medesimo arco temporale. Dagli anni Venti a oggi, il rischio individuale di morire per disastri legati al clima è calato di quasi il 99%. Sono statistiche, non le accuse contro gli adulti, i potenti, la giudo-plutocrazia-massonico-industriale di Greta e accoliti. È bastato l’aumento della ricchezza relativa a livello globale e, soprattutto, degli standard tecnologici e architettonici di prevenzione per evitare le catastrofi preconizzate dal 1970 in poi. Ma chi glielo dice a Greta? E alla Ocasio-Cortez, la quale pensa di risolvere tutti i problemi di deficit allegro e spesa keynesiana per sfaticati di massa attraverso quella bufala ambientalista chiamata Green New Deal, di fatto monetizzazione del debito in nome e per conto della foca monaca (e dei gonzi che ci credono)?

Signori, sveglia. Greta, intesa come simbolo ideologico e non come persona, non è altro che una Ambra di Non è a Rai dell’ambientalismo, una bambolina stereotipata nel suo abbigliamento infantile e nelle sue treccine modellate per intenerire e teleguidata nelle sue intemerate senza senso, né costrutto, né base scientifica. È il corrispettivo mediatico, buonista e progressista dei matti che arringano la folla allo Speakers’ Corner di Hyde Park il sabato mattina, raccontando delle loro gesta al fianco di Napoleone: ha la loro stessa credibilità scientifica. Peccato che a differenza di Ambra degli anni Novanta, Greta non si limiti a stuzzicare le pruderie un po’ perverse da Nabokov di provincia dei telespettatori. E che a differenza dei pazzi londinesi, non si limiti a strappare un sorriso e qualche centesimo di carità da spendere poi al pub. Lei vuole dettare legge e agenda politica, vuole farci sentire colpevoli, vuole il nostro mea culpa ma anche il nostro crucifige. Vuole, soprattutto, diventare potere, classe dirigente, in nome e per conto di un supposto cambiamento climatico che la realtà scientifica non solo nega ma ribalta completamente nella narrazione.

Greta Thunberg non è l’ennesimo, patetico fantoccio della propaganda ambientalista. È pericolosa proprio perché si nasconde dietro la sua stereotipata e ostentata innocenza, è un’avvelenatrice di pozzi mentali con le sue accuse generiche e senza riscontri, vendute un tanto al chilo, ma supportate da una retorica che non lascia nulla al caso e programmata per divenire in tempo reale materia da trend topic globale e dal ricatto implicito del suo disturbo, tramutato mediaticamente in forza catalizzatrice e sbandierato con studiata inconsapevolezza adolescenziale a mo’ di certificato medico di sana e robusta buonafede. È la quinta colonna di un sistema di contropotere che non ha il coraggio di mostrare le sue reali intenzioni, i suoi interessi, i suoi padrini e le sue lobbies e allora fa leva sul senso di colpa collettivo di una società talmente smidollata da sentirsi in debito con il mondo a prescindere, anche quando quel debito non esiste o non è stato contratto da noi.

Io non devo chiedere scusa a nessuno per il cambiamento climatico, i pinguini accaldati, gli orsi polari con le scalmane o i ghiacciai che ancora non hanno deciso se restringersi o meno. E forse, un domani, scopriremo che Greta, oltre al Nobel, avrà vinto anche un bella borsa di studio in qualche prestigiosissima università. Magari della Ivy League americana. Magari dove insegnavano quei geni che hanno creato l’Earth Day e fondato luminose e miliardarie carriere su idiozie anti-scientifiche sesquipedali. E diremo che è giusto così, che se lo merita. Ma non ci chiederemo, in realtà, chi gliel’ha pagata e per quale motivo. Se Greta il venerdì ha materie ostiche o che non le piacciono e utilizza la scusa dell’ambiente per bigiare insieme al suo inseparabile cartello, faccia pure. Ma non dia la colpa a me.