La chiamavano politica dei due forni ai tempi gloriosi della Prima Repubblica. Se ben ricordo la definizione si deve a Giulio Andreotti (o almeno era attribuita alla sua iniziativa). La metafora (rievocata giorni or sono da Paolo Mieli con riferimento al quadro politico attuale) si riferiva alla possibilità per un partito di scegliere tra due strategie e quindi tra diverse alleanze. Non vorrei sbagliare, ma per quanto metta sotto sforzo la mia memoria (anche quella di studioso) mi sentirei di testimoniare sotto giuramento che le confederazioni sindacali (e con loro le più importanti organizzazioni imprenditoriali) hanno sempre acquistato il pane in un forno solo. Ovviamente non sempre lo stesso, perché un conto sono i “padroni”, un altro i “governi”, siano essi nazionali o locali. Poi, da persone di mondo, i leader sindacali hanno sempre cercato tutti i contatti possibili e utili, incontrando i partiti, di maggioranza e di opposizione, e magari utilizzando tutti i rapporti formali e informali che consentissero di ottenere dei risultati. Ma sul piano formale (le forme sono essenziali in un corretto rapporto istituzionale) se c’era da incontrare la Confindustria, si andava a viale dell’Astronomia e si trattava con gli interlocutori che rappresentavano la controparte. Ugualmente con i governi in carica. Se c’era da affrontare un problema specifico si discuteva con il ministro competente; se invece l’esame riguardava questioni di carattere generale a entrare in campo, dall’una e dall’altra parte del tavolo, erano i numeri 1 o loro delegati in caso di grave impedimento. Ma ciascuna delegazione prendeva impegni per la propria parte.
Oggi anche le regole del fair play – che sono una consuetudine di solito rispettata – sono cambiate. I sindacati possono rivolgersi anche loro a due forni (perché i governi sono almeno due e si fanno una concorrenza sleale sul prezzo delle “rosette”); poi, volendo, dietro l’angolo, c’è anche una piccola bottega che cerca di sopravvivere tra i due panifici oligopolisti. I lettori avranno già capito dove va a parare la metafora: le parti sociali (in numero di 43) hanno aderito a una convocazione al Viminale da parte del ministro Salvini per parlare di economia, accorgendosi all’ultimo momento che in realtà gli interlocutori erano tutti della Lega. Il che ha suscitato le proteste del pluriministro Luigi Di Maio e del premier Conte, il quale si è precipitato ad affittare palazzo Chigi per esibire il pane prodotto dalla sua bottega all’angolo.
Ma con tutto questo traffico, alla fine, Cgil, Cisl e Uil sono riuscite a rifornirsi di pane e magari di un po’ di companatico? No. Gli interlocutori hanno preso nota delle ordinazioni e hanno pregato i “magnifici tre” di ripassare: il 6-7 agosto al Viminale; dopo il lavoro di ben 5 tavoli istruttori a palazzo Chigi. Di questi giri di valzer inconcludenti sono state fornite diverse versioni. Un filone di pensiero (pro labour) sostiene che i sindacati abbiano accettato di farsi strumentalizzare dal Capitano, al solo scopo di stanare Conte che non rispondeva alle loro richieste. Altri osservatori hanno segnalato un diverso motivo: gli iscritti ai sindacati che votano per la Lega sono tanti e avrebbero potuto offendersi se fosse stato fatto uno sgarbo a Salvini.
Se fossi al posto dei dirigenti sindacali – persone di esperienza e qualità – io rifiuterei di legittimare, ulteriormente, un andazzo sbracato dell’esecutivo. Matteo Salvini si atteggia a “decisore finale” su tutti i dossier, a uomo forte di una maggioranza in cui il verde sta invadendo il campo del giallo. Ma questa è la patologia dell’attuale situazione politica, una delle principali ragioni della dissolvenza delle istituzioni democratiche, che stanno trovando sbocco in un consolato conflittuale che, non essendo in grado di decidere su tutto, finisce per non decidere su nulla. Perché – con tutta la loro autorevolezza – le parti sociali, a partire dai sindacati, si rendono disponibili a favorire questa deriva?
Bisogna aver ben poca stima di se stessi e del proprio ruolo per farsi prendere in castagna sul piano della correttezza istituzionale. La democrazia è fatta anche di regole. Il 6 e 7 agosto i segretari generali si prendano due giorni di ferie. E se proprio devono mandare qualcuno prendano esempio da Danilo Toninelli in merito all’autorizzazione per la prosecuzione dei lavori alla Tav. Mandino dei funzionari.