L’idea di “riformare l’Irpef rimodulando l’Iva” è un cocktail politico-finanziario di molti veleni: incompetenza, ideologia, demagogia ai limiti della malafede. Si profila, anzitutto, come un grave atto autolesionistico per un Paese in difficoltà sempre più pesanti, anche per il contraccolpo recessivo globale in vista per la crisi coronavirus.
Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha firmato appena un mese fa una legge di Bilancio annuale che ha imposto aggravi fiscali – anzitutto a imprese e partite Iva quasi in “sciopero degli investimenti” in un’azienda-Paese in stagnazione – per finanziare nuovamente il reddito di cittadinanza assistenzialista e il prosieguo parziale della discutibile manovra previdenziale “Quota 100”. Entrambe le linee di politica finanziaria sono già state censurate dall’Fmi, cui ha invece fatto riscontro un primo silenzio-assenso da parte del commissario Ue agli Affari economici, l’ex premier italiano Pd, Paolo Gentiloni.
La manovra 2020 non ha messo in minima discussione la spesa corrente della Pa – da anni oggetto di pressanti raccomandazioni – né assunto alcun impegno taglia-debito: nonostante lo scorso maggio l’Italia fosse stata messa addirittura in procedura d’infrazione da parte della Commissione Ue.
Al di là di annunci pericolosamente vicini al fake, le cosiddette “clausole di salvaguardia” che da quasi un decennio pesano sul bilancio pubblico italiano non sono state affatto “disinnescate”: sono state solo rinviate, anzi appesantite alle scadenze future. Le clausole correnti restano imperniate, com’è noto, sul potenziale aumento delle aliquote Iva. Una prospettiva che tutti i governi recenti hanno sempre preferito non affrontare, con una motivazione politico-economica in sé non scorretta: incrementi anche selettivi dei prezzi al consumo di beni e servizi via Iva produrrebbero effetti depressivi su un’economia già provata come quella italiana.
È stato così anche per il governo Conte 2, che è sembrato rispondere tuttavia anche a motivazioni di più concreta natura politica. La prima è la banale tendenza – dopo il governo Monti – a scaricare sui governi futuri la responsabilità delle riforme strutturali che Fmi, Ue, Bce e agenzie di rating continuano a sollecitare all’Italia.
La seconda – forse più peculiare della maggioranza giallo-rossa in carica – è la segreta speranza che le “clausole” possano essere alleggerite o perfino cancellate dalla Ue di “Orsola” von der Leyen: sulla falsariga di quanto è avvenuto per la procedura d’infrazione per il debito, dapprima agitata dalla Ue dopo l’affermazione della Lega all’ultimo voto europeo, poi rapidamente dimenticata quando in Italia è maturato il “ribaltone” di governo.
È forse anche questo clima di “presunta impunità preventiva” che sta inducendo Gualtieri ad aprire il cantiere di una pretesa “grande riforma fiscale”, a prescindere dagli impegni da lui stesso presentati in Parlamento poche settimane fa, votati e inviati alla Ue. È un approccio che già nel metodo sembra trasudare disattenzione e forse disprezzo per le istituzioni e le procedure della democrazia parlamentare, nonché fastidio per i parametri Ue: singolare per un europarlamentare, esponente di una forza politica che rivendica il monopolio dell’europeismo e continua ad accusare il presunto anti-europeismo degli avversari.
In Europa, non da ultimo, nessun paese sembra credere all’abbassamento delle tasse sui redditi delle famiglie: in alternativa al taglio delle tasse “trumpiano” per le imprese è semmai molto più popolare l’aumento mirato della spesa pubblica in investimenti su digitalizzazione e svolta ecologica. La Gran Bretagna stanca dell’Europa ha appena imposto una storica sconfitta elettorale alla piattaforma statalista e tassatoria del Labour. E il Pse è stato il vero perdente del voto europeo del 2019.
Non aumentare l’Iva è stato comunque, fino a qualche giorno fa, un imperativo sotto il quale il ministro dell’Economia ha posto la sua firma sul più importante atto legislativo dell’anno. Passata la Befana, aumentare l’Iva “a braccio” – scambiandola con un taglio dell’Irpef ai redditi più bassi – è oggi una facoltà che lo stesso ministro vorrebbe auto-attribuirsi per replicare uno pseudo-stimolo spicciolo alla domanda delle famiglie.
L’operazione “bonus 80 euro” è fallita solo cinque anni fa per opera dello stesso Pd, poi sonoramente punito anche per questo alle ultime elezioni politiche. Il Conte 2, d’altra parte, ha già mostrato di non avere scrupoli quando ha approvato un “taglio del cuneo fiscale” quarantott’ore prima del voto in Emilia-Romagna e Calabria. Con un extra-costo di 3 miliardi pagato dalla “lotta all’evasione”, nei fatti in extra-deficit ed extra-debito.
L’operazione Irpef-Iva” sta prendendo le mosse nonostante siano forti i timori di un’azione a saldo negativo sul piano del ciclo, proprio per l’aumento dei prezzi. Il clima di sfiducia dell’Azienda-Paese è palpabile: nell’ultimo trimestre dell’anno (caratterizzato dalle festività natalizie) il Pil è diminuito. Le aziende non investono (non chiedono credito alle banche) e non assumono. Gli italiani tengono i loro risparmi inattivi in liquidità bancaria. Eppure Gualtieri non sembra nutrire il minimo dubbio.
È un atteggiamento nel quale sembrano riemergere, fra l’altro, le radici culturali di un uomo politico formatosi come storico marxista presso l’Istituto Gramsci e come quadro del Partito democratico della sinistra, immediato erede del Pci. È la tradizione che ha avuto come punta di lancia Vincenzo Visco: ministro delle Finanze nei governi Prodi e D’Alema, ministro del Tesoro nell’Amato 2 e ancora viceministro delle Finanze nel Prodi 2, con Tommaso Padoa Schioppa. Il quale – pur essendo un economista-tecnocrate di solida scuola social-liberale europea – una volta si lasciò scappare che “le tasse sono bellissime”.
Per Visco e i suoi allievi e imitatori – anche nel pieno del neo-liberismo globalizzato – in Italia le tasse erano e restano obbligatorie, prioritarie, mai abbastanza e sempre buone e giuste. Sono lo strumento principale, anzi forse l’unico “politicamente corretto” per una politica finanziaria innestata nell’ideologia novecentesca della lotta di classe: benché già al giro di boa del secolo, anche in Italia si fosse ormai creato un gigantesco ceto medio professionale e fossero emersi come nuovi “padroni” centinaia di migliaia di piccoli e medi imprenditori (talora direttamente dalla condizione di “operaio”).
È contro questa Italia che Gualtieri sta rilanciando un fisco ideologico: che confonde in misura sempre più pericolosa cause ed effetti, strumenti e obiettivi della politica finanziaria. La priorità, con tutta evidenza, non è affatto quella di stimolare la ripresa che manca da dieci anni. La crescita sembra anzi guardata con sospetto, in quanto fonte (presunta) di diseguaglianza. Chi rischia, investe, innova, esporta non va aiutato, anzi. E poco importa se sono questi italiani a creare il Pil, a dar lavoro ad altri italiani, a garantire il gettito fiscale con cui finanziare ogni spesa pubblica.
Il fisco sembra mantenere il compito precipuo di redistribuire reddito e ricchezza fra chi quel fisco considera “ricco” e chi “povero”: naturalmente sulla base di proprie premesse politico-amministrative. È un fisco che guarda ancora, in fondo, a Pil e ricchezza in termini feudali: sono grandezze date, chiuse nei perimetro di uno Stato nazionale. È un fisco in cui l’Europa stessa sembra essersi fermata a prima di Maastricht, a prima della caduta del Muro. Oggetto di discussione non è mai la produzione del reddito, ma la sua ripartizione: ieri fra signori e contado; oggi fra “classi” di elettori. Non interessano i processi di creazione dinamica della ricchezza in un’economia aperta (Marx la chiamava “accumulo”, ma sono trascorsi già quasi due secoli da quell’economia e da quelle teorie).
È un fisco – quello di Gualtieri – che continua a brandire demagogicamente la lotta all’evasione contro chi evasore è sempre stato poco o nulla e a risparmiare chi evasore è da decenni e continua ad esserlo sempre di più (a cominciare dalla criminalità organizzata). È un fisco che volentieri si mette al servizio (elettorale) del populismo assistenzialista del reddito di cittadinanza. Un fisco apparentemente lieto di funzionare da sirena per ogni para-pensiero neo-pauperista, per ogni utopia sulla “decrescita felice”.
In un Paese normale un ministro dell’Economia come Gualtieri dovrebbe misurarsi come minimo con il suo Consiglio dei ministri e soprattutto con il suo premier. Ma l’assenza di un esecutivo effettivamente funzionante è una delle spie più preoccupanti della crisi della democrazia istituzionale italiana. Questo sembra d’altronde inevitabile con un premier mai eletto dagli italiani e sostenuto da capi di Stato esteri in una delle più spregiudicate operazioni di trasformismo parlamentare nella storia dell’Italia unita. Mentre il silenzio di un’Europa debole e distratta potrebbe anche nascondere l’assenso all’autolesionismo finale di un Paese fiaccato anzitutto nella sua classe dirigente.