Le leggi stabiliscono regole destinate a diventare patrimonio comune. Punti di riferimento su cui il cittadino imposta vita sociale e decisioni da cui dipende anche il suo benessere attuale e futuro. È il caso della Legge Fornero, varata nel 2011 per ridurre la spesa pubblica e iniziare a puntellare la tenuta del sistema pensionistico. Eravamo in un momento di crisi finanziaria (se non ricordo male spread a 575 punti, oggi è a 140) ed era chiaro che il crescente peso del debito pubblico (1.900 miliardi di euro, oggi siamo a 3mila) e la crisi demografica (con progressivo sbilancio tra contribuzioni degli occupati ed erogazioni ai pensionati) uniti agli effetti devastanti della gestione “allegra” dei trattamenti di quiescenza, minavano seriamente il futuro del sistema previdenziale.



Sul piano dei numeri il provvedimento era un passo in avanti, ma su quello sociale implicava sacrifici, ovvero più anni di lavoro per gli italiani: fino a 67 anni (66 per le donne) per la pensione di vecchiaia e 42 anni e 10 mesi (41 e 10 mesi per le donne) di contributi per quella di anzianità (con una “finestra” di tre mesi tra cessazione del lavoro e percezione della pensione). Si manifestò per altro il problema degli “esodati”: lavoratori che avevano stabilito di allontanarsi dal proprio lavoro in anticipo, dopo un accordo con le aziende, che non potevano più accedere alla pensione nei tempi che avevano previsto. Una riforma sicuramente perfettibile, disse correttamente la Fornero.



Il mio amico Demetrio, persona seria, con profondo senso dello Stato e delle istituzioni, aveva a malincuore accettato il cambiamento. “Caro Alka, non possiamo mica far fallire l’Italia”, diceva. “E poi dobbiamo pensare ai giovani, al loro futuro”. Tredici anni dopo il varo della Fornero, Demetrio ha 64 anni, 41 dei quali di contributi versati all’Inps. Lavora per una piccola impresa meccanica della periferia milanese. Ai primi di agosto l’ho incontrato in vacanza. Gli mancavano tre anni per avere diritto alla pensione di vecchiaia, ma mi diceva di essere intenzionato a sfruttare quella di anzianità, che avrebbe maturato entro un anno e dieci mesi. Essendo diventato nonno avrebbe voluto curare il nipote. Mi confidava di avere qualche piccolo problema di salute. E che in azienda cominciava a sentirsi un po’… sorpassato. “Ho sempre lavorato, fatto il mio dovere, rispettato le regole”, mi diceva. “Ora è tempo di assumere altri impegni e lasciare il posto a chi è più giovane”.



Non so quanti Demetrio ci siano in Italia. Penso tantissimi. E posso immaginare il loro stato d’animo quando hanno appreso dai giornali che per tenere in piedi la baracca gli anni richiesti per accedere alle pensioni di anzianità e di vecchiaia potrebbero essere innalzati e che potrebbero essere create condizioni penalizzanti per scoraggiare l’esodo dal lavoro (leggi finestre più ampie prima del pagamento delle pensioni, calcolo solo con quota contributiva, ecc.).

“Ma come?”, mi ha detto Demetrio in questi giorni, “dal 2011 ad oggi ho visto vicini di casa, amici, parenti che lavoravano in tutti i settori fruire di scivoli, quote 100 e rotti, prepensionamenti, accompagnamenti… che hanno scaricato con disinvoltura costi sulle casse dell’Inps. E io, che ho rispettato rigorosamente le regole, ora devo farmi nuovamente carico del problema?”. La conclusione di Demetrio dovrebbe far riflettere: “In Italia si va in quiescenza in base a dove si lavora. A chi, come me, sta in una piccola azienda ora dicono che dovrà andare in pensione più tardi, mentre le grandi imprese continuano e continueranno a ricorrere ai prepensionamenti. Magari dopo aver incassato per anni contributi statali che teoricamente avrebbero dovuto sostenere la competitività e l’occupazione. Dove è finita l’equità?”.

Caro Demetrio, in effetti sono in tanti a pensare che esistono figli e figliastri. Vedo muratori a 66 anni ancora sui ponteggi e vacanzieri che a 59 anni non sanno se passare i prossimi quindici giorni in Sardegna o a Santo Domingo. Sai che ti dico? Ingoiamo anche questa volta l’amaro calice. Ci va ancora bene. E indigniamoci invece pensando al futuro di centinaia di migliaia giovani su cui peserà il lascito di decenni di spesa dissennata. I nostri figli avranno pensioni ridicole, in tarda età (70 anni?) in un Paese dove la sanità pubblica, se andiamo avanti di questo passo, sarà solo un ricordo. Pensioni lontanissime in termini di valore dai lauti trattamenti di cui godono quegli stessi politici – di ogni colore – che abusando delle casse dello Stato per costruire consenso elettorale hanno contribuito nei decenni a minare il welfare italiano.

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