Ieri mattina Twitter ha annunciato la rimozione di oltre 32mila account fake utilizzati da Cina, Russia e Turchia per azioni di disinformazione. La rete più grande, tra le tre smantellate, è quella cinese. Era composta da un nucleo di 23.750 account, i cui contenuti venivano amplificati sul social da altri 150mila account. Era usata per attività “coordinate e manipolatorie”, volte a “diffondere narrazioni geopolitiche favorevoli al Partito comunista cinese, e racconti ingannevoli sulle dinamiche politiche di Hong Kong”, ha spiegato il gestore della piattaforma di microblogging, che ha attivato un nuovo strumento anti-fake news: un “alert” specifico all’utente e leggere in modo approfondito quanto viene pubblicato.



Dopo le polemiche accese dal presidente Donald Trump – “flaggato” da Twitter come propagatore di fake – il “social” guidato da Jack Dolsey sembra dunque aver perfezionato un nuovo doppio standard: il rafforzamento dei filtri di vigilanza nei paesi/mercati caratterizzati da liberaldemocrazia sostanziale; e l’uso attivo e discrezionale del potere di bando verso soggetti e contenuti affacciati sulla piattaforma da paesi/mercati a basso livello di libertà civili interne e ad alta propensione all’utilizzo dei social media ai fini di interferenza nelle liberaldemocrazie.



E’ un segnale di importanza non trascurabile. Per quanto possa “odiare” Twitter ed essere a sua volta “odiato” da molti utenti, un presidente degli Stati Uniti non potrà mai essere oscurato o bandito. Verso gli account suoi e di tutti, Twitter s’impegna invece a migliorare il servizio sul piano della trasparenza e dell’accuratezza “democratiche” di quanto viene pubblicato.

Sul versante esterno non sembra esservi d’altronde più alcuna esitazione – almeno da parte di Twitter – a superare il globalismo basico e indiscriminato proprio della fase iniziale della società digitale.



Nessuna piattaforma digitale può dirsi al di sopra delle dinamiche geopolitiche. Non può porre e imporre in modo autoreferenziale la propria pretesa di portare i criteri della liberaldemocrazia in regimi che ne sono negazione e che la combattono. Un social media “consapevole” sa e deve distinguere: nel caso, deve anche saper “escludere”, per quanto ciò rappresenti l’eresia massima dell’ideologia “politically correct” cresciuta in modo consustanziale con il web.

Non è vero che sulla Rete siamo tutti uguali – “liberi”, “democratici” eccetera – e se non lo siamo ancora lo diventeremo proprio grazie alla Rete e il digitale globalmente “orizzontale”. Non è vero che la Silicon Valley è portatrice di un’istanza politico-istituzionale superiore a quella “sovrana” dell’America democratica dal 1776. E’ vero invece che la Cina, la Russia e la Turchia hanno la capacità e la volontà di manipolare la democrazia americana – e le altre – attraverso le piattaforme digitali gestite dalla Silicon Valley.  E’ vero che Silicon Valley concorrenti si sono sviluppate in Paesi non democratici e ostili alle altre democrazie.

Sempre ieri è stata una giornata non banale per la democrazia mediatica in Italia. Non si ha memoria – almeno nella storia repubblicana del Paese – di un premier che abbia rilasciato interviste contemporanee e di contenuto equivalente – sostanzialmente un’Intervista Unica – ai maggiori quotidiani nazionali (Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero, il Mattino, Il Fatto Quotidiano, cui va aggiunta l’apertura ormai fissa dell’edizione serale del Tg1 su “Conte al lavoro”).

Un primo interrogativo – spinoso ma inevitabile – riguarda gli standard professionali dell’editoria giornalistica nazionale a metà 2020. Chiunque abbia praticato il difficile mestiere del giornalista, sa che è criterio elementare garantirsi l’esclusiva di un’intervista: che è sempre “format” ben diverso dal resoconto di una conferenza stampa o da un briefing con le strutture di comunicazione di un leader politico o finanziario. Nel “giornalismo reale” – anche nel XXI secolo, non solo in Italia – può anche accadere a una testata di ospitare un’intervista sollecitata: perfino preparata a domanda e risposta. Ma se avviene che la larga maggioranza degli editori (privati) e dei direttori (concorrenti) delle principali testate nazionali accettino di ospitare contemporaneamente un’Intervista Unica – di per sé in odore di velina preconfezionata dal portavoce del premier intervistato – la democrazia vigilata dalla libera stampa, disegnata dalla Costituzione in vigore, sembra in stato di salute precario e declinante.

E’ pur vero che gli anticorpi non sembrano mancare: tre notisti politici di primo livello (Antonio Polito sul Corriere, Stefano Folli su Repubblica e Marcello Sorgi sulla Stampa) si sono ritrovati ieri singolarmente all’unisono nel criticare con toni forti un premier che si atteggia a “sovrano” e sembra in preda all’“ebbrezza del potere”.

Tuttavia la rassegna stampa di ieri non sembra facilmente archiviabile. Anche perché nel caso italiano a “distinguere” non è stato il sistema dei “media”, fra ciò che è “libera democrazia” e ciò che non le è. E’ stato invece il premier “a-costituzionale” a distinguere fra i giornali “amici” da convocare e quelli “nemici” da escludere.  Un approccio politico che è l’esatto contrario dello spirito democratico di unità nazionale costantemente invocato dal Presidente della Repubblica, garante ultimo anche dell’articolo 21 della Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.